* 1. Freud apre il discorso ricordando l’importanza del concetto di principio di piacere in psicoanalisi; lo descrive sinteticamente come la tendenza fondamentale alla diminuzione della quantità di eccitamento e definisce questa prospettiva come economica, indispensabile perché quella topica e quella dinamica acquisiscano quella completezza tale da far meritare alla descrizione complessiva l’appellativo di “metapsicologica”.
Seguono ulteriori precisazioni, in base alle quali il piacere e il dispiacere vengono messi in relazione rispettivamente alla diminuzione e all’aumento della quantità non legata di eccitamento presente nella vita psichica. Freud tiene a questo punto a connettersi con le ricerche di G.T.Fechner, mettendo in evidenza la convergenza della sua teoria con le conclusioni cui Fechner stesso giunge. Stabilita la relazione concettuale fra le categorie piacere-dispiacere e le categorie diminuzione-aumento dell’eccitamento (non legato), viene specificato che in questa polarità la tendenza è quella verso la diminuzione, cosa che determina la già citata egemonia del principio di piacere nella vita psichica. Qui si presenta per la prima volta uno dei più evidenti “nodi” (in termini di definizioni concettuali) del testo, che si ripeterà frequentemente nelle pagine successive dando luogo a confusioni secondo me irrisolvibili. Freud dice:
I fatti che ci hanno indotto a credere nell’egemonia del principio di piacere nella vita psichica trovano espressione anche nell’ipotesi che l’apparato psichico si sforzi di mantenere più bassa possibile, o quanto meno costante la quantità di eccitamento presente nell’apparato stesso.[1]
Ora, non è affatto la stessa cosa affermare che la tendenza è quella a mantenere la quantità di eccitamento la più bassa possibile oppure “quantomeno costante”. Non solo non è la stessa cosa, ma la differenza è così grande che pare impossibile sia sfuggita a Freud; mi pare importante fin da subito fissare nella mente che la differenza fra le due “tendenze” è talmente potente che può essere presa proprio come la differenza fra la vita e la morte, in quanto tendere all’eccitamento “più basso possibile” significa tendere a zero, ed eccitamento zero significa appunto la morte, mentre tendere a un eccitamento costante significa tendere a una omeostasi, cioè a uno “stato stazionario”, e le omeostasi, gli stati stazionari, sono molto più caratteristici della materia organica che non di quella inorganica; la quale ultima tende maggiormente della prima, anche se non esclusivamente, agli estremi (energia minima ed entropia massima). Al contrario tutti i processi biologici sono caratterizzati, proprio nella possibilità stessa della loro sussistenza e continuazione, da omeostasi. In altre parole, mentre uno stato energetico uguale a zero è senz’altro morto, una omeostasi può ben essere viva, tanto che non c’è vita senza omeostasi.
Le conseguenze di questa “svista” si possono rilevare nelle righe immediatamente seguenti:
Quest’ipotesi non è che una diversa formulazione del principio di piacere, poiché se il lavoro dell’apparato psichico mira a tenere bassa la quantità di eccitamento, tutto ciò che ha invece la proprietà di aumentare tale quantità deve essere necessariamente avvertito come contrario al buon funzionamento dell’apparato, e cioè come spiacevole. Il principio di piacere consegue dal principio di costanza; invero il principio di costanza è stato inferito dai fatti che ci hanno obbligati ad adottare il principio di piacere. Una discussione più approfondita ci mostrerà anche che questa tendenza che abbiamo attribuito all’apparato psichico è un caso particolare che rientra sotto il principio della tendenza alla stabilità, con cui Fechner ha messo in rapporto le sensazioni di piacere e di dispiacere.[2]
Al contrario, io ritengo che se il principio di piacere consegue dal principio di costanza, non è vero che debba essere avvertito come spiacevole l’aumento della quantità di eccitamento perché “contrario al buon funzionamento dell’apparato”, in quanto il “buon funzionamento dell’apparato” è sul livello omeostatico, non a zero, a meno che non consideriamo di trovarci nel “caso particolare” in cui la “costanza” sia riferita al livello zero; ma questa scelta deve essere giustificata (e non vedo come), cosa che Freud non fa; pertanto, in tutti gli altri casi, se è avvertito come spiacevole, come Freud dice, ciò che contrasta con il “buon funzionamento”, dovrebbe essere avvertito come spiacevole il diminuire ulteriore di un eccitamento già troppo basso rispetto al livello omeostatico e l’aumentare ulteriore di un livello già troppo alto; mentre sarebbe avvertito come piacevole l’aumento di un livello troppo basso e la diminuzione di un livello troppo alto rispetto a quello omeostatico; il fatto è che se il livello cui tendere è zero le variazioni possono avvenire solo sopra di esso, mentre se è un livello omeostatico diverso da zero le variazioni possono avvenire sia sopra sia sotto e quindi sono a doppio senso:
infatti è proprio questo che dice Fechner (con precisazioni quantitative) nella citazione che Freud riporta; ma quest’ultimo sembra aver trascurato questa non trascurabile questione pur di poter stabilire una convergenza con ciò che Fechner sostiene.
* 2. Il primo capitolo prosegue poi affrontando un argomento-cardine dell’intera trattazione: le limitazioni del principio di piacere. Non è esatto, dice Freud, parlare di egemonia del principio di piacere in quanto non è certamente vero che “la stragrande maggioranza dei nostri processi psichici (sia) accompagnata da piacere”. In base all’ “abbondante materiale costituito dalle nostre esperienze psicoanalitiche”, Freud può affermare che si osservano differenti circostanze che impediscono al principio di piacere di instaurarsi:
1. La prima di queste è la sostituzione del principio di piacere con il principio di realtà, dovuta all’influenza delle pulsioni di autoconservazione in seguito alle difficoltà dell’impatto con il mondo esterno. Con questa trasformazione, il processo secondario si sostituisce, o meglio si affianca, al processo primario nel governo del funzionamento psichico.
2. La seconda è costituita da una sorta di conflittualità interna fra pulsioni o componenti pulsionali incompatibili fra loro. Ciò comporta che le pulsioni in contrasto con i fini della “grande unità dell’Io” subiscano una rimozione; quando riescono a ottenere un soddisfacimento diretto o sostitutivo, per effetto della rimozione, questo risultato, che altrimenti sarebbe stato un’occasione di piacere, viene invece avvertito come dispiacere. Si inserisce pertanto in questo punto una complicazione non certo irrilevante: il piacere e il dispiacere non sono più sperimentati da un organismo inteso come un tutto, ma da parti di esso in contrasto, per cui, come Freud dirà più avanti, ciò che è piacere per un sistema può essere dispiacere per un altro.
3. Al termine, Freud lascia intendere che c’è dell’altro, che dobbiamo aspettarci di scoprire ulteriori limitazioni all'”egemonia del principio di piacere”.
* 3. La lettura del primo capitolo lascia quindi con queste idee:
– Esistono limitazioni del principio di piacere, alcune delle quali già ben conosciamo, e sono quelle del passaggio dal funzionamento secondo il processo primario a quello secondo il processo secondario e della rimozione, ma altre possono aggiungervisi.
– C’è un aumento della complessità del problema dovuto al fatto che non si può considerare “vigente” in una determinata circostanza o il piacere o il dispiacere, ma al contrario entrambi possono essere presenti contemporaneamente facendo capo a sistemi psichici in contrasto tra di loro.
Ma soprattutto evidenzio la seguente:
– 1a questione:
C’è una confusione di fondo sul rapporto fra piacere-dispiacere e modificazioni del livello di eccitamento psichico, perché è stata trascurata la differenza fondamentale fra il modello in cui il livello di riferimento è zero e quello in cui è un livello omeostatico diverso da zero. Pertanto, abbiamo subito perso per strada i casi in cui una diminuzione dell’eccitamento possa essere avvertita come dispiacere e un aumento come un piacere.