Ciò già ci introduce alla differenza capitale che c’è fra significante e significato; il significato attiene a quel registro dove qualcosa si trasmette attraverso il senso di ciò che si dice, mentre al livello del significato qualcosa continua a passare, a viaggiare lungo le catene associative, ma non attraverso il senso. Perché ciò possa essere meglio chiarito, mi sembra utile far riferimento a un esempio che Lacan stesso cita traendolo da Freud; si tratta di un piccolo articolo di quest’ultimo sul Feticismo[35], in cui è portato l’esempio di un giovanotto tedesco per il quale la soddisfazione sessuale richiedeva la percezione da parte sua di un certo “luccichio” sul naso (Glanz auf der Nase); Freud risale a qualcosa dell’infanzia del soggetto in questione, vissuta in Inghilterra, precisamente a una parola non della lingua tedesca, ma di quella inglese – glance – (“occhiata”, “sguardo”) che gli permette di passare da “sfavillio sul naso” a un’”occhiata al naso”. Il sintomo funzionava sullo sfavillio, mentre era sorto sullo sguardo. Ebbene, qui si vede come il passaggio Glanz–glance non sia avvenuto su di un registro di senso, ma in funzione dell’analogia formale delle parole implicate, analogia che non ha alcun senso. Qui, in questa regione, può prodursi un tête-à-bête[36], o magari un tremanti che diviene tre manti, che testimoniano del funzionamento del significante, fuori dal registro del senso. Si tratta di quel funzionamento che scopriamo nell’inconscio e che ritroviamo, ad esempio, nei sogni. Altrove si costituisce un senso, e, con esso, un significato. È qui, al livello del significato, che si può parlare di oggetto in quanto oggetto psichico; ed è perché c’è oggetto psichico che qualcosa può poi riferirsi alla realtà. Il significato lega la parola all’oggetto; qui la parola acquisisce il proprio valore in quanto significa, sta per, quell’oggetto. Sappiamo benissimo che un animale può apprendere questo; non abbiamo difficoltà a reperire nella nostra memoria ricordi di animali che intendono ciò a cui ci si riferisce con una certa parola. È facile accorgersi però anche che, in questo senso, non è necessario un linguaggio, cioè un sistema organizzato di significanti con le proprie regole. Si può scegliere una parola a caso (ed eventualmente anche inventarla) e far apprendere all’animale che quella parola indica quella cosa; il fatto che un cane reagisca alla parola guinzagliotrae in inganno perché si ha l’impressione che la reazione avvenga in rapporto a ciò che per noi è “guinzaglio”. L’animale invece, non essendo nel linguaggio, non può che apprendere una parola per via di quel tipo di addestramento associativo che i behaviouristi hanno esplicitato; questa connessione associativa è effettivamente per il cane nel potere pavloviano del padrone. Il bambino, al contrario, ha a che fare anche con significanti.
Ciò conduce a riconsiderare lo statuto delle pulsioni alla luce di questa nuova etica, di questo nuovo discorso sulle tendenze. A cosa mira la pulsione? È importante a questo punto rammentare quanto Freud stesso aveva detto al proposito; ad esempio:
Introduciamo due termini: chiamiamo la persona dalla quale parte l’attrazione sessuale, oggetto sessuale, l’azione verso la quale la pulsione spinge, meta sessuale; a questo punto l’esperienza, vagliata dalla scienza, ci indica numerose deviazioni per ciò che riguarda sia l’oggetto sia la meta sessuale, il rapporto dei quali rispetto alla presunta normalità richiede un’indagine approfondita[37].
Ciò che distingue le pulsioni l’una dall’altra e le fornisce di qualità specifiche è la relazione che esse hanno con le loro fonti somatiche e le loro mete. La fonte della pulsione è un processo eccitante in un organo, e la meta prossima della pulsione risiede nell’abolizione di questo stimolo organico[38].
e infine:
La nostra attenzione è attirata dal fatto che abbiamo l’abitudine di rappresentare in modo troppo intimo il legame della pulsione sessuale con l’oggetto sessuale. L’esperienza dei casi ritenuti anormali ci insegna invece che, in tali casi, tra pulsione sessuale e oggetto sessuale non vi è che una saldatura: noi corriamo il pericolo di trascurare questo fatto data l’uniformità della strutturazione normale, nella quale la pulsione sembra comportare l’oggetto. Così siamo ammoniti ad allentare nei nostri pensieri il legame tra pulsione e oggetto. La pulsione sessuale probabilmente è in un primo tempo indipendente dal proprio oggetto e forse non deve neppure la sua origine agli stimoli del medesimo[39].
La pulsione sembra comportare l’oggetto. Quindi non lo comporta. Siamo ammoniti ad allentare nei nostri pensieri il legame tra pulsione e oggetto. Appare chiaro ciò che Freud intendeva al riguardo: che l’oggetto è lì non in quanto obiettivo, ma in quanto appoggio, strumento, per una pulsione che lancia la sua proiezione oltre di esso, al di là. A che cosa è dunque legata la pulsione? Evidentemente ad altro, che non sia un oggetto. Riprendo una precedente citazione di Lacan e la completo:
… Voglio dire che tutto ciò che si sviluppa a livello dell’interpsicologia madre bambino, e che mal si esprime nelle cosiddette categorie della frustrazione, della gratificazione e della dipendenza, non è altro che un immenso sviluppo del carattere essenziale della cosa materna, della madre, in quanto occupa il posto di questa cosa, di das Ding.
Tutti sanno come le sia correlativo quel desiderio di incesto che è la grande trovata di Freud. Si ha un bel dire che lo si vede da qualche parte in Platone, o che Diderot lo dice nel Neveu de Rameau o nel Supplément au Voyage de Bougainville – mi importa ben poco. L’importante è che ci sia stato un uomo che, a un certo momento della storia, si sia alzato per dire – Questo è il desiderio essenziale.
Ed è quel che si tratta di avere saldamente in mano – Freud designa nell’interdetto dell’incesto il principio della legge primordiale di cui gli altri sviluppi culturali non sono altro che le conseguenze e le ramificazioni – e nello stesso tempo egli identifica nell’incesto il desiderio più fondamentale.”[40]
Ecco dunque ciò che prende forma davanti a noi: il desiderio fondamentale è quello dell’incesto, ma l’“oggetto” di questo desiderio non è un oggetto: è das Ding; cioè il reale vuoto. È il vuoto l’oggetto della pulsione, quel vuoto che per il soggetto è il luogo della Felicità; quel vuoto davanti a cui si para l’oggetto della realtà per far da scudo nei confronti dell’angoscia che sorge dall’a tu per tu con l’Abisso che attrae[41] e, nello stesso tempo, per offrire quel soddisfacimento che in realtà è possibile perché esso sta lì al posto di qualcos’altro, al posto dell’impossibile. Questo è ciò che indica, secondo me, il senso della distinzione freudiana fra oggetto e meta della pulsione, e quindi il senso del suo monito ad allentare nei nostri pensieri il legame tra la pulsione e l’oggetto; la pulsione scende sulla terra, si materializza, si possibilizza, in un oggetto, mentre è sempre e solo rivolta all’Assoluto, e quindi all’impossibile:
“È attorno al Ding come Fremde, estraneo e talvolta anche ostile, ma in ogni caso come il primo esterno, che si orienta tutto il percorso del soggetto. Senza alcun dubbio è un percorso di controllo, di riferimento, ma rispetto a che cosa? – al mondo dei desideri. Il soggetto sperimenta che, dopotutto, qualche cosa effettivamente c’è, lì, che almeno fino a un certo punto può servire. Servire a che cosa? – a fare da riferimento rispetto a quel mondo di desideri e di aspettative, che è orientato verso ciò che potrà eventualmente servire per arrivare a das Ding. L’oggetto sarà lì quando, a conti fatti, tutti i requisiti saranno stati soddisfatti – ma naturalmente, è chiaro che ciò che si tratta di trovare non può essere ritrovato. Per sua natura l’oggetto come tale è perduto. Non sarà mai ritrovato. (…)
Il mondo freudiano, ossia quello della nostra esperienza, comporta che ciò che si tratta di ritrovare sia questo oggetto, das Ding, in quanto Altro assoluto del soggetto. Lo si ritrova tutt’al più come rimpianto. Non è lui che si ritrova, ma le sue coordinate di piacere. È in tale stato di auspicio e di attesa che si cercherà, in nome del principio di piacere, quella tensione ottimale al di sotto della quale non si ha più né percezione né sforzo.
In fin dei conti, senza qualcosa che lo allucini come sistema di riferimento, nessun mondo della percezione riesce a ordinarsi in modo valido, a costituirsi secondo una modalità umana. Freud ci presenta un mondo della percezione come dipendente da questa allucinazione fondamentale senza di cui non ci sarebbe nessuna attenzione disponibile.”[42]
Naturalmente, tutto ciò ci obbliga a riconsiderare il rapporto che intercorre tra la Legge e il desiderio; siamo abituati a pensare al desiderio come a un anelito che in una legge non può che trovare una riduzione, uno smorzamento, un temperamento; cioè come un qualcosa che preesiste alla legge e andrebbe dritto allo scopo, se potesse, cioè se non vi fosse una legge a impedirlo. Ma ora la legge si presenta come fondante, come istituente quella scissione che divide il soggetto, che lo taglia, che lo rende mancante e pertanto desiderante:
“La Legge è forse la Cosa? Questo no. Tuttavia io non ho potuto prendere conoscenza della Cosa se non attraverso la Legge. Non avrei infatti avuto l’idea di bramarla se la Legge non avesse detto – Non la bramerai. Ma la Cosa, trovando l’occasione, suscita in me, grazie al comandamento, ogni sorta di bramosie; la Cosa infatti senza la Legge è morta. Ora, io, un tempo ero vivo, senza la legge. Ma quando venne il comandamento, la Cosa si accese, si destò a vita, mentre, io, trovai la morte. E il comandamento che doveva darmi la vita divenne per me causa di morte, la Cosa infatti, trovata l’occasione per mezzo del comandamento mi sedusse e attraverso di lui mi ha fatto desiderio di morte.
Credo che, da qualche minuto, almeno qualcuno di voi abbia avuto il dubbio che non fossi più io a parlare. In effetti, a parte una piccola modifica – Cosa al posto di peccato – , questo è il discorso di san Paolo sui rapporti tra la legge e il peccato (Epistola ai Romani, 7,7).”[43]
È la Legge che crea un’assenza e, con essa, l’anelito al suo superamento, al recupero della pienezza, cioè il desiderio; il desiderio non può che essere rivolto a ciò che manca, altrimenti non vi sarebbe nulla da desiderare, e siccome il desiderio stesso è inestinguibile, ciò che ne è la causa ha da essere ineliminabile.
Mi pare che questa sia una delle prospettive migliori da cui si può cogliere la radicale scissione del soggetto in quanto strutturale, fondante, non come problema da superare in un ideale di “integrazione”: dove c’è integrazione non c’è desiderio, e quindi non c’è soggettività. Il soggetto vive della sua scissione. Essa è la divisione fra un Simbolico dove è tutto ciò che esiste, ma non è reale, e un Reale vuoto.
La pulsione così riconsiderata appare pertanto come l’espressione dell’eterno movimento del Simbolico verso il Reale, di un moto perpetuo in quanto non terminabile, della ricerca di una convergenza tanto irrinunciabile quanto irraggiungibile.
Il soggetto in questo è preso, è questo che si trova addosso (all’osso) come radice del suo anelito.
Si tratta qui del grande anti-idealismo di Lacan; nulla può essere individuato come il fine, il Sommo Bene; né dal lato dell’Idea, la quale non fa che mirare al Fremde, al reale irraggiungibile, senza alcuno sbocco verso un Assoluto che sia ideale, né dal lato della Natura, cioè di quel Reale che è si il luogo della Verità, ma di una Verità che si istituisce proprio in virtù della sua radicale inattingibilità, e pertanto vuota. Né la Cultura né la Natura possono funzionare da pilota automatico per l’uomo, il quale si costituisce proprio per questo come soggetto.
Dal lato dell’Idea, pertanto, la psicoanalisi non può conformarsi a un’etica dello Spirito, dove la meta sarebbe posta in un Ideale supremo, in un’astrazione, un’ascesi, perché sa che la pulsione, che è il motore dell’umano, è rivolta al Reale.
Dall’altro, essa non può predicare un’etica della Natura (quella che Lacan chiama la “pastorale”[44] ), perché sa che non è dalla Natura che sorge la pulsione stessa; intanto perché, come abbiamo visto, è la Legge che crea la pulsione; e poi perché, se concepissimo l’analisi come una destrutturazione della morale anti-naturale per il recupero dell’essenza naturale dell’uomo, dovremmo incontrare, in questa destrutturazione, la liberazione del Vero Oggetto, il recupero del Vero Altro dell’Amore, quello che in Natura sarebbe dato; ma Freud non si è mai sognato di presentare le cose così; sappiamo cosa egli pensasse invece: che tornando indietro, risalendo la storia soggettiva, non questo ideale naturale si trova, ma pulsioni parziali, zone erogene, punti del corpo che si eccitano e cercano una scarica; questo Freud ha posto alla radice della sessualità, non un ideale naturale; il Genitalprimat[45] (primato genitale) non è che un mettere a posto le cose a posteriori, un costruire su fondamenta di frammentazione dove nulla può essere individuato come l’Oggetto naturale dell’amore; pensiamo anche allo sviluppo kleiniano: qui regnano oggetti parziali, cioè, è ben chiaro, niente che riguardi un Oggetto dato come predisposto dalla Natura. È la Legge che lo crea istituendolo in quanto mancanza.
Le due opposte direzioni dell’ideale ci sono precluse; al fondo di esse non si trova ciò che si desidera supporre esservi.
La scissione del soggetto e la pulsione di morte
Abbiamo quindi definito qualcosa che sta alla base dell’organizzazione psichica non in quanto elemento che fornisca una direzione, un significato fondamentale da cui poi conseguirebbe tutto, ma, al contrario, una scissione, cioè un elemento di discordanza, di originario svuotamento, disorientamento.
La divisione soggettiva, quella divisione che fonda il soggetto medesimo, è operata dal taglio del significante e comporta la creazione di due regioni che si affacciano l’una sull’altra senza potersi mai ricoprire, fondere in unità, perché radicalmente non-consustanziali. Una è la regione del particolare, dove nulla può essere ordinato perché sta assolutamente fuori da ogni universalizzazione, cioè da ogni ordine simbolico, ed è pertanto la regione del Reale, che è vuoto.
L’altra è la regione del Simbolico, luogo dell’ordine istituito dal significante e dalle proprie leggi, cioè luogo dell’universale, da cui resta irrimediabilmente fuori tutto ciò che è reale, cioè la particolarità; è pertanto la regione dell’essere, in quanto non reale.
Vediamo ciò che viene delineandosi: quanto dallo psichismo può essere ripreso, afferrato, può esserlo solo in quanto passa nell’ordine simbolico; quindi, per il soggetto (naturalmente il soggetto è inconscio), esiste ciò che è nell’universo del simbolico. Il Reale si presenta come l’inaspettato, l’impensabile, l’inciampo, l’urto. Il suo essere è nero, oscuro, non discernibile, non dicibile; sorge dal nulla e spiazza un soggetto che è posto in un ordine che non lo contempla.
Ora, questo è il punto, un soggetto può esistere come tale solo in quanto fondato su tale faglia. Infatti nessun funzionamento soggettivo può sussistere nell’uno o nell’altro dei due registri. Possiamo giungere a dire che il soggetto in quanto tale può venire a essere perché qualcosa del reale non consente una totale identificazione al simbolico e qualcosa del simbolico non consente che esso si perda nel reale.
Certamente la nozione di “soggetto” è quanto di più intricato si possa incontrare nella filosofia e nella psicoanalisi stessa, ma non è necessario, per comprendere ciò che segue, gettarsi in tale ginepraio; è sufficiente far riferimento a quanto comunemente si intende per soggetto, soggettività, posizione propria, soggettiva, essere un soggetto che sceglie, o che decide, o che è responsabile.
È evidente che nulla del genere potrebbe sussistere nella regione del Reale puro, cioè nella regione del magma, del “caos primordiale”[46], dove tutto è unico e irripetibile; là nulla può essere ordinato perché nulla è, e, non essendovi alcuna simbolizzazione, nessuna distanza può essere presa dal soggetto rispetto a quella determinazione di sé che deriva dall’oscuro avviluppamento da parte del reale. Il soggetto è preso in quell’inciampo, in quell’urto, è quell’inciampo, quell’urto. Si tratta dell’esperienza della frammentazione assoluta, delle particelle sconnesse e vaganti, lampi, apparizioni, sensazioni puntuali.
Ma dall’altro lato del taglio, dal lato del Simbolico puro, cosa succede? Qui c’è l’Ordine dell’Universale; come tale è assolutamente universale. Il soggetto è preso nelle sue leggi, che sono assolutamente, cioè non ammettono nulla di una soggettivazione[47], che comporterebbe una particolarizzazione; nessuna distanza può essere interposta fra l’Ordine e il soggetto: e qui ordine vale appunto tanto mettere in ordine quanto imporre; le coordinate di tale Ordine divengono le sbarre della prigione soggettiva, i fili in cui il soggetto si stempera. Il soggetto è totalmente nel simbolico; la parola diviene il tutto, e quindi reale. Per questo, che è il delirio, la psicopatologia ha un nome, lo chiama paranoia:
“L’anima umana è contenuta nei nervi del corpo, che devono essere concepiti come conformazioni di straordinaria finezza, paragonabili ai più sottili fili di refe. Una parte di questi nervi è adatta soltanto a ricevere impressioni sensibili, mentre altri (i nervi dell’intelletto) provvedono a tutto ciò che è psichico; si stabilisce quindi la situazione per cui ogni singolo nervo dell’intelletto rappresenta tutta quanta l’individualità spirituale dell’uomo, e il numero maggiore o minore dei nervi dell’intelletto esistenti ha influenza soltanto sul tempo durante il quale le impressioni della psiche [i ricordi] possono essere fissate.
Mentre gli uomini sono costituiti di corpo e di nervi, Dio è fin dagli inizi soltanto nervo. I nervi di Dio tuttavia non sono, come nel corpo umano, presenti solo in numero limitato, bensì infiniti o eterni. Essi possiedono tutte le qualità insite nei nervi umani in misura enormemente più grande. Con riferimento alla loro capacità di creare, cioè di trasformarsi in tutte le cose possibili nel mondo creato, essi si chiamano raggi. Tra Dio e il firmamento o il sole sussiste un rapporto intimo.”[48]
[Le evidenziazioni in corsivo sono di Freud]
Ora, perché pulsione di morte?
Dal lato del Reale: perché das Ding, come abbiamo visto, è per il soggetto la meta, la mira ultima, l’assoluto che anima la pulsione, la quale guardando a essa, si imbatte nell’oggetto della realtà. Quindi la pulsione ha sempre per “oggetto” quel reale dove nulla è e dove quindi, se il soggetto vi pervenisse, troverebbe la morte. Qui si comprende bene come sia calzante quell’espressione impiegata da Freud: Principio del Nirvana, cioè dell’abbandono, dell’abbandono al non-essere; si tratta dell’annullamento di ogni tensione, dove per tensione dobbiamo intendere quella trazione che tiene il soggetto a una certa distanza dal centro vuoto e che è esercitata dal Simbolico, in virtù del quale esso, il soggetto, esiste. Lo trattiene dal ritorno indietro, a quell’Origine in cui esso non era.
Si vede cos’è che anima questo ritorno, che quindi ben merita il nome di pulsione, cioè di tendenza, spinta a; è l’anelito ad azzerare la mancanza, cioè la divisione del soggetto. Il simbolico è ciò che crea la distanza, l’abisso, fra l’oggetto e das Ding; questo scarto è immaginato riducibile a zero grazie a un regresso, da tre a due, da due a uno.
Principio del Nirvana, dunque, perché là qualcosa dorme, qualcosa che, se fosse attraversato dal pensiero, dal significante, potrebbe divenire un soggetto. Dal lato del Reale, quindi, l’annullamento della mancanza è perseguito attraverso l’annichilazione del Simbolico:
“La morte a cui la pulsione sospinge è allora concepibile come uno stato esente da tensioni, come l’immagine di una quiete assoluta. Luogo di un godimento non ancora intaccato dal significante.”[49]
Il Simbolico è ridotto al Reale. Non c’è più divisione perché il soggetto scarta da sé quel che di sé è inscritto nel Simbolico. Il soggetto si accascia, si frammenta, si identifica al caos oscuro e magmatico del Reale, si realizza, tanto per sfatare un termine che oggi è di moda.
Dal lato del Simbolico: perché se un modo di non aver a che fare con la mancanza è quello che abbiamo or ora descritto, l’altro è quello di far mancare questo reale che seduce e sfugge insieme; cioè: far mancare la mancanza. È in questo che il soggetto si getta in toto nel Simbolico; nel suo voler credere che sia tutto lì, che non ci sia quell’Al di là che lo tormenta, che lo pone incessantemente alla ricerca. Mancanza della mancanza. Quindi presenza: il Reale viene supposto presentificabile nel Simbolico, che diviene così il luogo del Tutto. Nulla resta fuori. Il Reale può esser detto anziché interdetto. Il delirio non è per il soggetto quel che egli può dire in quanto il Reale è interdetto, vietato, ma quel che egli dice perché è reale[50]; lo sforzo paranoico è quello di cogliere il reale in quanto positivizzato attraverso il pensiero[51].
Anche qui, dunque, pulsione di morte. Perché c’è una spinta – la stessa di prima: annullare la divisione soggettiva – anche se per una diversa strada. In questo modo c’è un arroccamento dal lato del Simbolico: il soggetto è tutto nel Simbolico e lì attinge la propria completezza; non c’è alcun Fremde. Egli dunque si identifica, aderisce, uguaglia l’universo del simbolico, rispetto a cui non dispone di alcun grado di libertà, di alcuno scivolamento, perché esso è supposto attaccato al reale. In ciò egli non può assumere alcuna posizione soggettiva: perché non può muoversi; è inchiodato al suo delirio e quindi è morto come soggetto.
Nessuna difficoltà qui, credo, a riconoscere lo stesso “progresso” di prima: da tre a due, da due a uno. Qui, ciò che vien fatto fuori per passare da tre a due è il Reale: non c’è Fremde, come dicevo.
Si tratta ora di un progresso all’indietro, in quanto è addentrandosi sempre più nell’Universale, fino a perdervisi, che si cerca di recuperare l’Origine.
In entrambi i casi, è sempre l’Uno, la non-scissione, che si pone come meta: si tratta di quell’anelito alla totalità che ben merita l’appellativo di Totestrieb.
Questi due movimenti, del regresso e del progresso all’indietro, sono assolutamente caratteristici dell’orizzonte in quanto circolare; per cui un’accelerazione infinita verso di esso, per raggiungerlo, per annullare la distanza, ha lo stesso effetto di un’accelerazione infinita lontano da esso, per sfuggirlo: qui esso verrà incontrato alle proprie spalle; in entrambi i casi, è lo stesso orizzonte che si raggiunge: la morte. Com’è ovvio, in quanto un’accelerazione infinita porta il tempo, che è qui il tempo da vivere, a uguagliarsi a zero; il cerchio fa punto: punto e basta.
Il soggetto e l’intermedio tra due morti
Qual è dunque il ruolo che il soggetto gioca in tutto questo? Per dirne qualcosa, conviene che torniamo al nostro punto di riferimento, centrato sul significante.
È il rapporto fra il significante e il senso che dobbiamo indagare; comprendere innanzitutto questo: che il significante, di per sé, non ha senso; esso è organizzato in base a leggi proprie che lo strutturano in una complessità, e queste leggi non comportano altro che questo: simbolizzare. L’universo del significante è quindi puramente e semplicemente uno spazio simbolico, che, in quanto tale, può essere percorso; ma nessuna indicazione vi è, in questo spazio, sulla direzione che debba essere presa, cioè sul senso. Sarebbe come pretendere di rintracciare un senso in uno spazio cartesiano: esso è lì come potenzialità di senso, è perché esso è lì come potenzialità che una mano (un soggetto) può tracciarvi un vettore e, con ciò, stabilire una direzione.
Il senso è ciò che si presenta quando un significante è preso come riferentesi a; cioè quando entra in ballo un significato. E questo è precisamente un soggetto che lo fa; quel che si tratta di vedere, ora, è dove tale soggetto sia collocato.
All’inizio, infatti, il soggetto è in quanto pensato, cioè in quanto oggetto del pensiero dell’Altro (il Grande Altro Materno); lì, allora, nell’Altro, è posto il Soggetto. Il nostro soggetto inconscio, il nostro bambino in quanto soggetto che ha ancora da venire in campo, trae il proprio sentimento di essere in quanto riesce a cogliersi come appartenente, come fra i pensieri dell’Altro. Lì egli non è (in quanto soggetto), perché è come oggetto. Oggetto del desiderio materno: è precisamente questo il suo significato, quello che l’Altro gli attribuisce. Quindi egli è collocato in un ordine che nasce altrove e lì si ritrova, elemento fra gli altri elementi di questo Ordine; è un pezzo del puzzle dell’Altro:
“Il soggetto (…) entra nel gioco come morto, ma è come vivente che lo giocherà”[52]
Come potrà verificarsi questo passaggio, da morto a vivo? Il soggetto, tra l’altro, ci tiene a stare lì, a essere l’oggetto del desiderio materno. Anzi, si sforza di essere quell’oggetto che l’Altro desidera, di ricoprire cioè tutto lo spazio di desiderio dell’Altro per fare Uno[53].
È qui però che incontra (o non incontra) un limite; nel fatto che lo “sguardo” materno si volga (o non si volga) altrove. In questo limite si rintraccia ciò che Lacan ha articolato sul Nome-del-Padre. Ripeto: il Nome-del-Padre; perché l’interdizione opera nel senso di creare un limite (limite al desiderio materno per il bambino e al desiderio infantile per la madre[54]) se qualcosa del Padre funziona nel simbolico; cioè nell’Altro c’è qualcosa di un limite.
Nulla può funzionare, per il soggetto che è, che desidera essere, preso nel desiderio dell’Altro, del padre reale se non in ciò che la parola di questo padre è per la madre. Lacan lo esplicita:
“Non si tratta tanto dei rapporti personali fra la madre e il padre, e di sapere se l’uno o l’altro sono o non sono all’altezza; si tratta propriamente di un momento che deve essere vissuto come tale e che concerne i rapporti non solo della persona della madre con la persona del padre, ma della madre con la parola del padre, con il padre in quanto ciò che egli dice non è equivalente a niente (…)
In altri termini, il rapporto nel quale la madre fonda il padre come mediatore di qualcosa che sta aldilà della sua propria legge, quella di lei, e del suo capriccio, e che è puramente e semplicemente la legge in quanto tale, il padre dunque in quanto Nome-del-Padre – vale a dire in quanto ogni sviluppo della dottrina freudiana ce lo annuncia e lo promuove, vale a dire come strettamente legato a questa enunciazione della legge – sta lì ciò che è essenziale, ed è per questo che egli viene accettato o non viene accettato dal bambino come colui che priva o non priva la madre dell’oggetto del suo desiderio.”[55]
Quindi il padre entra in gioco nel simbolico, ed è solo da lì, lì nello spazio dell’Altro, che funziona come emblema del limite dell’Altro, (l’Altro è barrato: A) e quindi come terziarietà che il soggetto trova, e trova effettivamente perché è nell’Altro; ciò che il soggetto trova è un Altro mancante, cioè desiderante, desiderante un Terzo che non è lui. Lo trova lì, appunto, in quel posto del desiderio dell’Altro che avrebbe voluto totalmente occupare.
Pertanto, è perché il soggetto “legge” nell’Altro che c’è un limite al desiderio materno per lui che egli ne viene espulso e, con ciò, si creano le condizioni per cui, non potendo stare tutto lì, egli debba collocarsi altrove; cioè fuori dall’essere l’oggetto del pensiero dell’Altro o potremmo limitarci a dire: fuori da essere oggetto:
“non sono, là dove sono il trastullo del mio pensiero; penso a ciò che sono, là dove non penso di pensare”[56]
Che è il modo in cui Lacan riformula il Cogito ergo sum cartesiano; riformulazione che si basa sulla scoperta freudiana in quanto questa scoperta colloca il pensiero all’esterno del soggetto, nell’Altro, e quindi fa del soggetto qualcosa che, innanzitutto, non pensa, ma è pensato.
Credo che tutto questo possa esserci utile per comprendere ciò che ruota intorno al problema della significazione; nel momento in cui un soggetto si affaccia, si trova a essere quel che è, diciamo così, intendendo che si trova a essere quel che è (stato) per l’Altro, cioè per un soggetto posto fuori.
È in un pensarsi che egli si fa oggetto del proprio pensiero, trovandosi, in quanto oggetto del proprio pensiero, come ciò che è stato (oggetto del pensiero dell’Altro) e, in quanto pensantesi, come soggetto, cioè come ciò che può essere diversamente da ciò che è stato.
Questa è la trasformazione psicoanalitica.
“ Ciò che questa struttura della catena significante scopre, è la possibilità che ho, appunto nella misura in cui la sua lingua mi è comune con altri soggetti, cioè nella misura in cui questa lingua esiste, di servirmene per significare tutt’altra cosa da ciò che essa dice. Funzione della parola più degna d’essere sottolineata che quella di mascherare il pensiero (il più sovente indefinibile) del soggetto: cioè quella di indicare il posto di questo soggetto nella ricerca del vero.”[57]
Quando pertanto, come psicoanalisti, cerchiamo il significato, (interpretiamo), bisogna sapere cosa stiamo facendo: non stiamo affatto trovando un significato che è “nell’inconscio” nel senso di una ipostatizzazione del significato inconscio in quanto Verità. L’inconscio, nella misura in cui si fonda sul significante, non reca significato alcuno, ma solo potenza di simbolizzazione, cioè, come ho detto, potenzialità di significato. Quel significato c’è perché è stato prodotto, in quel punto dove Qualcuno ha legato significante e significato in quel modo. Pertanto, ciò che troviamo non è il significato in quanto contenuto di verità dell’inconscio, ma è il soggetto che troviamo nel suo manifestarsi come quello che è (stato). Il che fa la differenza, perché nel primo caso viene sbattuta in faccia all’analizzante un verità presa per oggettiva: “questo è ciò che di vero c’è nel tuo inconscio”, e con ciò lo si inchioda all’impasse, perché egli non potrà che scegliere fra identificarsi a ciò che è stato definito come vero oggettivo in lui (che non è il suo vero, ma il vero di qualcunAltro), e quindi perire come soggetto, oppure collocarsi altrove, con ciò perdendo dal lato del suo sentimento di autenticità. L’analisi è qui bloccata nella sua ragion d’essere in quanto trasformazione: il nuovo non può entrare in campo che come falso rispetto al “vero” che c’è.
Nel secondo caso solamente l’analisi ritrova il proprio asse: quando il significato che viene analizzato è preso come una verità soggettiva, cioè come un nodo che è stato legato e che quindi non è affatto più vero di altri nodi che il soggetto potrà allacciare. Lì e solo lì il soggetto è liberato dalle catene di una Verità data e può installarsi come “vivo”, cioè come colui che fa i nodi. Ecco quindi perché si dice analizzante, e non analizzato o analizzando, termini, questi ultimi, che alienano il soggetto perché gli dicono implicitamente che chi fa i nodi è un Altro, e non lui.
Lacan pone una questione assolutamente analoga riguardo alla durata dell’analisi:
“…questa durata non può essere anticipata per il soggetto se non come indefinita.
…la fissazione di un termine equivale a una proiezione spazializzante, in cui egli si trova sin d’ora alienato a se stesso: dal momento che la scadenza della sua verità può essere prevista, qualunque cosa possa accadere nell’intersoggettività intervallare, ciò vuol dire che la verità è già lì, cioè che ristabiliamo nel soggetto il suo miraggio originale, in quanto egli pone in noi la sua verità e, sanzionandolo con la nostra autorità, noi insediamo la sua analisi in una aberrazione, che sarà impossibile correggere nei suoi risultati.”[58]
Ecco dunque la regione che viene a definirsi per il soggetto in quanto tale: essa si colloca fra Reale e Simbolico relativamente, da una parte, a das Ding – che è lì in quanto luogo del Reale, morto perché “il nome uccide la cosa”, – e, dall’altra, a un Altro su cui è ora posto il segno della barratura: -A – che è lì in quanto luogo del Simbolico, morto in quanto emblema di un’illusione di totalizzazione.
È questo lo spazio che si apre al soggetto interrogato dalla psicoanalisi.
È così che io leggo quell’intermedio tra due morti [59] che Lacan pone come lo spazio, l’unico spazio, in cui un soggetto può venire al mondo.
Non è una posizione facile da sostenere e naturalmente non ha nulla a che fare con il “servizio dei beni”[60], col need of achievement, con una Felicità raggiunta o con un trovarsi a proprio agio[61]. Non è una consolazione, né una serenità, perché anzi è una regione ove l’angoscia è libera di fluttuare; come dicevo all’inizio, ha più a che fare con la verità (peraltro mai colta, ma sempre cercata) che con una consolazione o, se vogliamo, un ben-essere.
Si tratta di un venire all’essere in quanto soggetto, nelle due accezioni del termine: soggetto a qualcosa, a un ordine simbolico, e soggetto di qualcosa, colui che fa qualcosa di questo ordine simbolico cui è soggetto. Per porsi lì è necessario venire a sapere che ogni riferimento è morto, che non è possibile rifugiarsi né all’uno né all’altro estremo dell’intermedio. Ogni verità che sarà istituita sarà un verità soggettiva, e quell’anelito a fondarsi su di una verità data è un anelito alla morte.
Ciò dà al soggetto la sua misura, che è la misura di un limite, e quindi di un non-del-tutto, di una mancanza, sola garante dell’essere del soggetto in quanto desiderante, vivo in quanto desiderante.
[35] J. Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, Op. Cit., pag. 517. Vedere anche S. Freud, Feticismo (1927), in Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, (1997), pag. 491.
[36] S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905), in Opere, vol. 5, Boringhieri (1981), pag. 21.
[37] S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in Opere – Vol. 4, Boringhieri, (1982), pagg. 451-452.
[38] ibidem, pag. 479.
[39] ibidem, pag. 462.
[40] J. Lacan, Il seminario, – Libro VII -, Op.cit., pag. 83.
[41] “… lassù in montagna, in quel canalone… un’attrazione verso il vuoto“, come si è espressa un’analizzante parlando del suo sintomo. È notevole appunto il fatto che lei, parlando della sua insostenibile angoscia in quella situazione, abbia nominato quel vuoto in quanto attraente, in modo che esso veniva così a porsi allo stesso tempo come causa di un’angoscia e di un’attrazione.
[42] J. Lacan, Il seminario, – Libro VII, Op.cit., pagg. 64-65.
[43] J. Lacan, Il seminario, – Libro VII, Op.cit., pag. 105.
[44] ibidem, pag. 111.
[45] ibidem, pag. 114.
[46] Con questa espressione, mi riferisco a una “primordialità” logica e non cronologica, diciamo a quel “reale primordiale” che Lacan nomina nella citazione che ho sopra riportato a pag. 35.
[47] “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale” è la Legge fondamentale della ragion pura pratica di Kant: I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1997, pag. 65; (essa è richiamata da Lacan: J. Lacan, Il Seminario – Libro VII, Op. cit., pag. 96). Kant sosteneva espressamente che nulla di un motivo soggettivo può concorrere alla determinazione di un’azione che sia morale, al punto che la legge morale “deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore”: ibidem, pag. 159. È d’altronde attraverso questa via che Lacan introduce il suo avvicinamento, per non dire identificazione, fra Kant e Sade: J. Lacan, Kant con Sade, in Scritti – Vol. II, Einaudi, 1974, pagg. 764 e sgg.; vedere anche: J. Lacan, Il Seminario – Libro VII, Op. cit., pag. 100.
[48] S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente (caso clinico del Presidente Schreber) (1910), in Opere – Vol. 6, Boringhieri, 1981, pag. 351. È interessante rilevare che Freud annota: “L’identificazione (o meglio la condensazione) di nervi e raggi potrebbe aver assunto l’estensione lineare come elemento che li accomuna.” Quell’estensione lineare, potremmo aggiungere, che li accomuna a loro volta con le catene significanti. Ma il significante è ciò che fa essere tutto ciò che esiste, come abbiamo visto, cosa che d’altra parte ci insegna Schreber attribuendo la capacità di creare ai nervi divini.
[49] M. Recalcati, L’universale e il singolare, Marcos y Marcos, Milano, 1995, Pag. 66.
[50] “Nella paranoia, curiosamente, Freud introduce un termine (…): Versagen des Glaubens [rifiutare di credere]. A questo primo estraneo rispetto a cui il soggetto all’inizio deve fare riferimento, il paranoico non ci crede.” J. Lacan, Il Seminario – Libro VII, Op. cit., pag. 67.
[51] Come espressamente mi diceva un analizzante: “Dottore, non riesco ad arginare i pensieri, i pensieri incalzanti; sono pensieri d’impotenza: continuamente penso di baciare una donna; questo pensiero torna e ritorna, ma non riesco a provare il piacere di quel bacio; non riesco a ricordarmi del piacere che avevo provato quando questa donna c’era”.
È questo “ma non riesco a provare il piacere di quel bacio” che brilla qui per la sua evidenza: l’evidenza di uno scacco che, per quel soggetto, era palese non dovesse esserci; per lui valeva come ovvia la supposizione che quel piacere, che del reale necessita, potesse essere attinto nel pensiero. Cioè che il reale fosse ripreso dal simbolico. Ben a proposito egli parla dunque qui di impotenza, perché si tratta di quell'”impotenza” che riguarda tutti, discendendo dal taglio del significante, e che egli non voleva riconoscere come qualcosa che lo riguardava. Quel sentimento di impotenza era propriamente ciò che gli buttava in faccia l’impossibilità del suo intento: far mancare la mancanza.
[52] J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, in Scritti – vol. II, Op. cit., pag. 548. Recalcati legge diversamente questa frase di Lacan (che cita in L’universale e il singolare, Op. cit., a pag. 201) intendendo che il soggetto entra nel gioco come morto perché per entrare nel gioco dei significanti paga il prezzo di una perdita di godimento: “l’entrata nel campo dell’Altro implica la morte della Cosa”. Ciò è senz’altro vero. Non è meno vero, d’altronde, che “il soggetto – come Recalcati stesso si esprime – entra in un ordine universale di regole che lo determinano – il campo dell’Altro-.” In ciò, aggiungo io, cioè nell’essere determinato da un ordine universale di regole, il soggetto non è meno morto.
Può essere interessante allora intendere questa frase di Lacan come un’espressione che, nelle due diverse accezioni, è in grado di sinterizzare (sinterizzare e non sintetizzare) i due tempi della causazione soggettiva, così come Recalcati li nomina: alienazione e separazione.
[53] È ciò che sopra ho chiamato “progresso all’indietro”, cioè essere tutto “in avanti” nell’Altro, nello spazio del significante, per ritornare “indietro” all’unità con l’Origine, con la Madre.
[54] M. Recalcati, L’universale e il singolare, Op. cit., ad es. pag. 44 e pag. 94.
[55] J. Lacan, Il Seminario, (1957-1958), Le formazioni dell’inconscio, (inedito).
[56] J. Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, in Scritti – Vol. I, Einaudi, 1974, pag. 513.
[57] ibidem, pag. 499.
[58] J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, Op. cit., pag. 304.
[59] J. Lacan, Il Seminario, – Libro VII, Op.cit.,pagg. 341 e sgg.; anche pag. 402.
[60] J. Lacan, Il Seminario, – Libro VII, Op.cit.,pagg. 277 e sgg.
[61] Riguardo alla interrelazione fra il desiderio e il disagio si veda: M. Recalcati, L’universale e il singolare, Op. cit., pagg. 113 e sgg.; anche pag. 106.