* 4. Nel secondo capitolo viene introdotto il discorso relativo alle “nevrosi traumatiche”. Freud si meraviglia del fatto che i sogni delle persone affette da nevrosi traumatica riportino continuamente il malato nella situazione del suo incidente con lo spavento che ne deriva. Osserva che sarebbe molto più consono alla natura del sogno che al malato si presentassero immagini in cui egli sta bene; conclude che, se non vogliamo mettere in crisi la convinzione secondo la quale il sogno tende all’appagamento di un desiderio, dobbiamo ammettere che nelle nevrosi traumatiche anche la funzione del sogno venga disturbata.
Cosa significa tutto ciò? Significa che Freud si domanda, proseguendo il discorso del capitolo 1, se esistano altre limitazioni al principio di piacere: se si riscontrassero sogni in cui il soggetto si pone in una situazione sicuramente spiacevole, che non possa essere interpretata diversamente che come spiacevole, ciò contraddirebbe la teoria del sogno come appagamento di desiderio, cioè contraddirebbe il principio di piacere. Egli sembra qui ritrarsi da questa prospettiva, non volere, per ora, sottoporre a revisione questa concezione del sogno che, come sappiamo, è un cardine della sua costruzione teorica che non aveva mai finora voluto mettere in discussione.
* 5. Si passa poi all’osservazione del famoso “gioco del rocchetto”; per Freud è notevole il fatto che del gioco in “due fasi” venga ripetuta soprattutto la prima, quella cui dovrebbe essere legato un dispiacere.
Freud pone l’ipotesi di una “spinta a elaborare psichicamente” (a elaborare le “sparizioni” della madre) che abbia la proprietà di manifestarsi a prescindere dal principio di piacere; cioè: c’è qui una limitazione al principio di piacere? E questa consiste forse in una spinta a elaborare psichicamente?
E’ chiaro che questo interrogativo riguarda anche la questione dei sogni delle nevrosi traumatiche, perché si potrebbe supporre che i malati sognino ripetutamente l’incidente nel tentativo di “elaborarlo psichicamente” (per abreagirlo) non meno di quanto il bambino faccia con le separazioni dalla madre.
Ma Freud non fa cenno di questo per i sogni, mentre lo fa per il gioco del bambino; sappiamo perché: perché intendere il sogno come rielaborazione psichica metterebbe in crisi la concezione dello stesso come appagamento di desiderio.
Egli propone alternative a questa ipotesi; in sostanza che ciò che apparentemente è un dispiacere possa in realtà essere un piacere perché:
– consente di passare dalla posizione passiva di subire gli allontanamenti della madre a quella attiva di provocarli.
– oppure consente di dare espressione a un desiderio di vendetta, di sfida, verso la madre che “abbandona”.
In definitiva, anche prendendo in considerazione altri casi di osservazione del gioco dei bambini, non si riesce a dirimere la questione, non potendosi determinare con chiarezza se gli elementi spiacevoli di tali giochi siano da ascriversi a una limitazione del principio di piacere o al fatto che in realtà, nel gioco, passa un tipo di soddisfazione diversa.
Al termine del capitolo 2, Freud dice:
Per concludere, possiamo ancora ricordare che la rappresentazione e l’imitazione artistica degli adulti, a differenza di quelle dei bambini, sono rivolte alla persona dello spettatore e, pur non risparmiandogli le impressioni più dolorose – nella tragedia per esempio -, possono tuttavia suscitare in lui un godimento elevatissimo. Ciò è una prova convincente del fatto che anche sotto il dominio del principio di piacere esistono mezzi e vie a sufficienza per trasformare ciò che in sé stesso è spiacevole in un oggetto suscettibile di esser ricordato e psichicamente elaborato.[3]
Ebbene, qui si presenta un secondo elemento di perplessità che lascia sconcertati su questioni di fondo, non meno di quello relativo all’omeostasi che ho cercato di mettere in luce riguardo al primo capitolo: possono esservi manifestazioni psichiche che apparentemente sembrerebbero produrre dispiacere, ma in effetti potrebbero anche rivelarsi produttrici di piacere se viste diversamente. Inoltre è evidente che impressioni dolorose possono essere oggetto di una elaborazione artistica che le trasforma in un godimento estetico; a ciò si aggiunga quanto detto sopra a proposito del fatto che, data la complessità della psiche, ciò che è dispiacere per un sistema può essere piacere per un altro.
Mi domando come faremo ora a sapere se un qualunque caso che dovessimo esaminare sia da considerarsi come espressione di un piacere o di un dispiacere.
E’ chiaro che, giunti a questo punto, la percezione soggettiva del dispiacere non può trarci d’impaccio, perché questo dispiacere può essere un piacere se considerato diversamente; ad esempio il piacere di un Super-io punitivo. Mi riesce difficile immaginare come si potrebbe esaminare una situazione in un modo così esaustivo da escludere che ciò che si presenta come un dispiacere non sia in realtà un piacere per un altro verso. Tutto ciò non è certo di secondaria importanza in una trattazione ove ci si domanda se esistano limitazioni all’egemonia del principio di piacere.
Per dire che esistono limitazioni al principio di piacere diverse da quelle evidenziate da Freud nel capitolo 1, sarebbe necessario:
1. poter considerare una manifestazione psichica certamente classificabile come accompagnata da dispiacere.
2. poter affermare che tale manifestazione sorge per cause interne alla psiche, escludendo cause esterne, e che non sorge per sviluppare piacere in un altro sistema.
Infatti, non interessa qui a Freud una limitazione come quella che segue, ad esempio, all’instaurarsi del processo secondario, che dal punto di vista della teoria pulsionale è neutra, non porta alla necessità di postulare altre pulsioni.
Quello che mi pare di capire di ciò che Freud aveva in mente concludendo il capitolo 2 è qualcosa del genere: “c’è qualcos’altro, sono convinto che ci sia un’altra forza che agisce nella psiche; non crediate che mi riferisca a questioni asettiche, banali limitazioni del principio del piacere la cui scoperta lascerebbe il tempo che trova; c’è dell’altro”.
Rimane comunque il fatto che, a causa delle perplessità che ho esposto, si resta con l’impressione che sul concetto stesso di piacere sia stata gettata un’ombra e che una delle cose apparentemente più evidenti, immediate e scevre di dubbi della nostra vita come il piacere, sia divenuta oscura e sfuggente nella sua essenza.
E certamente ci aspettiamo che tutto ciò renderà più difficile anche la comprensione di quanto ci aspetta nelle pagine successive, perché se è meno chiaro cosa sia il piacere come potremo comprendere cosa sia questo qualcos’altro da esso? Cosa ne sarà della nostra comprensione del rapporto fra i due?
Mi pare il caso di porre, qui, la:
– 2a questione
questa impasse nasce proprio dal fatto che viene trascurata l’importanza della soggettivazione del piacere-dispiacere; il fatto che un piacere venga avvertito come tale, soggettivamente, è di capitale importanza invece. Le persone, se esprimono una sofferenza, è perché percepiscono del dispiacere o perché percepiscono come spiacevole il fatto di non percepire sufficiente piacere, ad esempio, cosa che non accadrebbe se il piacere provato da un sistema fosse intercambiabile con quello provato da un altro. Sostengo qui, e mi sarà più facile chiarirlo alla fine, la non–intercambiabilità fra il “piacere” provato da un “sistema” psichico qualsiasi e quello soggettivamente provato.