* 15. Giungiamo così all’esame del 5° capitolo. Freud compie innanzitutto la seguente operazione: servendosi anche dell’idea che “lo strato corticale che riceve gli stimoli” non sia dotato di un rivestimento protettivo contro gli stimoli che provengono dall’interno, asserisce che questi vengono ad assumere un importanza predominante dal punto di vista economico e danno spesso occasione a disturbi economici che possono essere paragonati alle nevrosi traumatiche.
L’intento è chiaro: estendere la dinamica ipotizzata per i sogni post-traumatici a tutto il funzionamento dell’apparato psichico e non solo: con questa generalizzazione, il meccanismo della coazione a ripetere, allora introdotto per la spiegazione di una reazione a un trauma proveniente dal mondo esterno, diviene tout court applicabile al normale funzionamento dell’apparato perché riguarda ora il “trauma” provocato dalla normale stimolazione interna.
L’analogia fra funzionamento dell’apparato psichico così come egli lo immagina nel caso dei sogni post-traumatici e funzionamento “normale” è precisata poi da Freud ricorrendo ai concetti di processo primario e processo secondario e a quelli di investimento liberamente fluttuante (o mobile) e investimento legato (o tonico); così, l’attività degli impulsi “non legati” è assimilata all’azione del trauma e lo sforzo dell’apparato psichico di legare questo investimento libero è assimilato all’operare di quell’automatismo che generava dispiacere nei sogni post-traumatici, cioè alla coazione a ripetere; infatti:
Stando così le cose, gli strati superiori dell’apparato psichico avrebbero il compito di legare l’eccitamento pulsionale che ubbidisce al processo primario. Il fallimento di questo tentativo provocherebbe disturbi analoghi a quelli della nevrosi traumatica; solo una volta che l’investimento libero fosse stato convenientemente legato, il principio di piacere (e quella sua modificazione che è il principio di realtà) potrebbe esplicare indisturbato il suo dominio. Fino a quel momento prevarrebbe invece l’altro compito dell’apparato psichico, il compito di domare o legare l’eccitamento, non diremo in contrasto col principio di piacere, ma indipendentemente da esso e in una certa misura senza tenerne conto.[6]
Questo è di nuovo uno di quei passaggi dell’opera dove così, quasi in sordina, vengono fatti passare concetti-chiave, che poi ipotecano tutto il senso del costrutto teorico.
Non possiamo dichiararci soddisfatti di ciò; perché questo passaggio è troppo importante per esser dato per acquisito senza curarsi del rigore logico e concettuale con cui viene effettuato; una difficoltà può essere citata qui, un’altra verrà affrontata più avanti:
torniamo al problema contro cui ci siamo già cimentati; infatti, eravamo riusciti a emergere dal dubbio se principio di piacere e coazione a ripetere fossero o meno distinguibili solo grazie all’idea che, nel caso dei sogni post-traumatici vi fosse una differenza dovuta al fatto che in essi non era rintracciabile una fonte di stimolazione attuale contro cui agiva la coazione stessa. Ma l’estensione che Freud opera adesso annulla questa differenza, ipotizzando che questo meccanismo coatto intervenga in risposta proprio a una stimolazione attuale, cioè alla normale, fisiologica e ubiquitaria stimolazione pulsionale. Pertanto, siamo di nuovo costretti a domandarci dove Freud si sia imbattuto nella necessità di abbandonare il concetto esplicativo del principio di piacere per dare ragione della tendenza ad abbassare o a mantenere bassa l’energia del sistema, sostituendolo con quello di coazione a ripetere; abbiamo visto che non basta a questo proposito ricorrere alle osservazioni di casi in cui “sorge” dispiacere, perché Freud stesso li aveva spiegati grazie al solo principio di piacere; quale altra differenza interviene, secondo lui, così rilevante da giustificare l’introduzione di un concetto così dirompente come quello della coazione a ripetere? Da una parte sembra giustificato attendersi che si sia manifestato qualcosa di molto anomalo e tale da mettere fortemente in crisi la precedente concettualizzazione, dall’altra pare che le “osservazioni” sulle quali Freud fonda la sua speculazione non contengano nulla del genere e anzi mostrino di essere del tutto paragonabili con le situazioni che venivano spiegate per mezzo del principio di piacere.
Dobbiamo tornare indietro e rimettere in discussione quanto ci pareva di aver finora acquisito e di poter tenere per fermo, cioè la conclusione n. 1.
* 16. Viene ora sviluppata un’ulteriore estensione del concetto di coazione a ripetere; sono queste le pagine in cui il pensiero di Freud raggiunge la massima radicalizzazione. Egli torna agli esempi relativi al gioco infantile e alla “traslazione” che si verifica durante il trattamento psicoanalitico. Prima avevamo visto che le osservazioni sul gioco infantile non venivano alla fine considerate sufficienti per ipotizzare una coazione a ripetere e l’idea viene ora ribadita; viene però ribadita anche l’affermazione concernente la traslazione, che, al contrario, “non tiene conto in alcun modo del principio di piacere” (il corsivo è di Freud).
Le manifestazioni della coazione a ripetere che sono in contrasto con il principio di piacere possono far pensare all’azione di una forza “demoniaca”.
Tornando alla traslazione, il nevrotico mostra, secondo Freud, che “le tracce mnestiche rimosse delle sue esperienze più remote non sono presenti in lui in forma “legata”, e anzi in un certo senso sono incapaci di ubbidire alle regole del processo secondario”. Poi:
Ma che tipo di connessione esiste fra la pulsionalità e la coazione a ripetere? A questo punto ci si impone l’ipotesi di esserci messi sulle tracce di una proprietà universale delle pulsioni e forse della vita organica in generale, proprietà che finora non era stata chiaramente riconosciuta o, almeno, non era stata rilevata esplicitamente. Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente al quale quest’essere vivente ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno; sarebbe dunque una sorta di elasticità organica, o, se si preferisce, la manifestazione dell’inerzia che è propria della vita organica.[7]
Cioè: siccome ciò che è stato identificato come uno degli esempi più caratteristici della coazione a ripetere, il comportamento nevrotico nella traslazione, mostra di funzionare secondo il processo primario, cioè come un investimento non legato, cioè come le pulsioni, allora la pulsionalità è, in genere, coazione a ripetere.
Tengo a sottolineareche questa nuova definizione della pulsione corrisponde perfettamente allo schema a pag. 14, cioè al funzionamento della coazione a ripetere nei sogni post-traumatici; lo “stato precedente” sarebbe quello “pre-fulminazione”. Ma sappiamo già che qui c’è un problema, cioè che questo modello non riguarda la risposta dell’organismo a una stimolazione attuale, dove sia presente investimento liberamente mobile, situazione con la quale Freud istituisce una, almeno apparentemente ingiustificata, analogia. A meno che non si consideri che anche nel caso dei sogni post-traumatici lo squilibrio del sistema sia dovuto alla pressione di energia non legata; ma non possiamo dimenticare che ciò era proprio quanto avevamo dovuto escludere per poter individuare una differenza tra coazione a ripetere e principio di piacere e giungere così alla “conclusione n.1”, la quale, peraltro, ha già mostrato di non reggere allo sviluppo successivo del discorso.
Le successive considerazioni mirano a mostrare come non vi sia nulla da meravigliarsi nell’idea di una coazione a ripetere organica, per la quale, fra gli altri, viene portato l’esempio dell’ereditarietà. Freud rileva come possa suonare strana questa naturaconservatrice della pulsione, che eravamo abituati a considerare come promotrice di cambiamento e sviluppo.
Infine:
Ma per il momento ci attira l’idea di sviluppare fino alle sue ultime conseguenze l’ipotesi che tutte le pulsioni tendano a ripristinare uno stato di cose precedente. Anche se il risultato potrà dare un’impressione di astruseria o di misticismo, noi sappiamo peraltro di non meritare affatto l’accusa di esserci proposti una cosa del genere. Quel che cerchiamo sono i sobri risultati della ricerca o della riflessione che da essa scaturisce; né vorremmo che tali risultati possedessero altre qualità all’infuori della certezza.[8]
Pertanto, mentre le pulsioni sono sempre conservatrici, lo sviluppo dovrà essere accreditato a fattori esterni perturbatori.
Ognuno dei cambiamenti imposti a un organismo nel corso della vita è stato accolto dalle pulsioni organiche conservatrici e preservato per essere successivamente ripetuto; queste pulsioni suscitano così necessariamente la falsa impressione di essere forze inclini al mutamento e al progresso, mentre invece cercano semplicemente di raggiungere una meta antica seguendo vie ora vecchie ora nuove.[9]
(Qui riscontriamo, per inciso, una delle affermazioni in cui Freud tradisce il proprio “lamarckismo”, in quanto una teoria di questo tipo è in contrasto con l’idea darwinistica dell’evoluzione delle specie; nessuna variazione “imposta” agli organismi può essere conservata, per Darwin, riguardando essa il fenotipo e non il genotipo; le variazioni del genotipo non possono avvenire per l’azione di fattori esterni ambientali, e vengono conservate quelle che, a posteriori, si rivelano più utili per la sopravvivenza della specie).
Si tratta di una vera e propria escalation del concetto di coazione a ripetere, come già avevo notato: allora dalla reazione a un trauma al funzionamento psichico normale, ora da una delle modalità del funzionamento psichico normale alla pulsionalità in toto.
Questa ulteriore estensione è frastornante; oltre alle perplessità che abbiamo sentito il bisogno di esprimere, se ne aggiunge ora un’altra, non meno pesante: avevamo capito che la coazione a ripetere consistesse nello sforzo dell’apparato psichico di legare “con successo” l’investimento libero; finché questo non fosse avvenuto, non sarebbe stata possibile l’instaurazione del principio di piacere; ma quando Freud diceva questo si riferiva all’estensione da lui stesso operata dal caso della nevrosi traumatica al caso della risposta alla stimolazione pulsionale; quindi la coazione a ripetere interveniva per legare un investimento pulsionale liberamente mobile; ma adesso è questo stesso investimento pulsionale liberamente mobile, che la coazione a ripetere deve legare, che viene chiamato coazione a ripetere!
Ci dobbiamo confrontare coll’idea che la coazione a ripetere abbia il compito di legare se stessa!
Non dimentichiamo, infatti, che Freud aveva detto che il “trattamento” intendeva avvalersi della coazione a ripetere e che questo significa che egli pensava che la coazione a ripetere funzionasse come motore del “ritorno del rimosso” e quindi come spinta disequilibrante.
Non mi pare vi siano altre spiegazioni; certamente Freud aveva espressamente identificato il compito della coazione a ripetere nel legare l’investimento pulsionale liberamente mobile del processo primario; il fallimento di questo compito “provocherebbe disturbi analoghi a quelli della nevrosi traumatica”; ma ora è quella stessa pulsione funzionante secondo il processo primario che è la coazione a ripetere. Ci si chiede di immaginare che vi sia una tendenza economico-dinamica della psiche tale che i suoi effetti debbano essere contrastati dall’intervento riequilibratore di ….. se stessa, di se stessa che aveva provocato lo squilibrio. Non capiamo; data l’importanza della questione è necessaria una maggiore chiarezza. Qui possiamo porre la
– 3a questione:
Incontriamo una ulteriore difficoltà consistente nel fatto che si ricorra a quel motore psichico indipendente e a priori rispetto al principio di piacere che è stato chiamato “coazione a ripetere” sia per spiegare la tendenza al disequilibrio del sistema sia per rendere conto della tendenza al riequilibrio dello stesso.
* 17. Anche quello che segue è un passaggio importante, perché ci accompagna nel profondo del pessimismo freudiano; questa che finora era la “coazione a ripetere” diviene pulsione di morte.
Si potrebbe anche indicare questo fine ultimo cui tende tutto ciò che è organico. Sarebbe in contraddizione con la natura conservatrice delle pulsioni se il fine dell’esistenza fosse il raggiungimento di uno stato mai attinto prima. Al contrario, deve trattarsi di una situazione antica, di partenza, che l’essere vivente abbandonò e a cui cerca di ritornare, al termine di tutte le tortuose vie del suo sviluppo. Se possiamo considerare come un fatto sperimentale assolutamente certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte, e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi.[10]
Poi, le “pulsioni di autoconservazione” vengono marginalizzate: esse non sono che pulsioni parziali che hanno lo strano compito di far morire l’organismo “solo alla propria maniera”.
Ci rendiamo conto dell’oscuro pessimismo che anima queste parole: non dimentichiamo che quanto stiamo leggendo non si limita a significare che c’è una pulsione di morte, perché poco prima avevamo seguito Freud lungo la strada che lo portava ad affermare che tutta la pulsionalità è coazione a ripetere; quindi, visto che la coazione a ripetere è pulsione di morte, la conclusione non è, come dicevo, che vi sia una pulsione di morte, ma che tutta la pulsionalità dell’organismo è pulsione di morte.
La coazione a ripetere si mostrava come “demoniaca”, perché agiva noncurante del principio di piacere, ma in fondo, si sarebbe ancora potuta recuperare in una prospettiva vitale, perché tendeva semplicemente a restaurare lo stato precedente alla “fulminazione”. Ma ora ci troviamo al cospetto di ben altro: il fine, tutto il fine della tensione dell’organismo, è la morte.
Due brevi notazioni prima di procedere:
In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota. Forse si è trattato di un processo di tipo analogo a quello che in seguito ha determinato lo sviluppo della coscienza in un certo strato della materia vivente. La tensione che sorse allora in quella che era stata fino a quel momento una sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato. In quel tempo morire era ancora una cosa facile, per la sostanza vivente; probabilmente la sua vita aveva ancora un corso assai breve, la cui direzione era determinata dalla struttura chimica della giovane vita. E’ possibile, così, che per molto tempo la sostanza vivente fosse continuamente ricreata e morisse facilmente, finché decisive influenze esterne provocarono mutamenti tali da costringere la sostanza sopravvissuta a deviare sempre più dal corso originario della sua vita, e a percorrere strade sempre più tortuose e complicate prima di raggiungere il suo scopo, la morte. Queste vie errabonde che portano alla morte, fedelmente serbate dalle pulsioni conservatrici, si presenterebbero oggi a noi come l’insieme dei fenomeni della vita. Se resta ferma la natura esclusivamente conservatrice delle pulsioni, questa ipotesi sull’origine e sullo scopo della vita è la sola che possiamo formulare.[11]
Rilevo solo rapidamente che quindi dobbiamo immaginare che, mentre l’organismo vivente sia stato teso a morire, a tornare cioè a quello stato inorganico da cui è sorto (“controvoglia” verrebbe da dire), il fatto che esso venisse riprodotto e infine “costretto” a esistere sia ascrivibile solo a “decisive influenze esterne”; ma, considerato che le influenze esterne non possono che risiedere nell’inorganico, nel morto, sarebbe in questo stesso inorganico morto che dovremmo collocare la tensione che ha fatto essere la vita;quello che vien da pensare è che, dato che la vita esiste, ciò che è uscito dalla porta rientra dalla finestra: le “pulsioni di vita” (diciamo ciò che ha costretto la vita a essere) dovrebbero essere rintracciate nell’inorganico morto.
C’è poi una frase sibillina:
Si determina così il paradosso che l’organismo vivente si oppone con estrema energia a eventi (pericoli) che potrebbero aiutarlo a raggiungere più in fretta lo scopo della sua vita (per così dire grazie a un corto circuito). Ma questo comportamento è quello che caratterizza precisamente le tensioni meramente pulsionali, in contrasto con quelle intelligenti.[12]
Le “tensioni meramente pulsionali” tendono a far morire l’organismo e quelle delle “pulsioni di autoconservazione” tendono a farlo morire “solo alla propria maniera”. Ma che significa “in contrasto con quelle intelligenti”? Se lo scopo delle pulsioni è, cortocircuito o non cortocircuito, la morte, in contrasto con quelle intelligenti” significa che queste mirano non alla morte, ma alla vita; ma questo è un bel mistero:
– innanzitutto, perché, di punto in bianco, scopriamo nell’organismo qualcosa che non tende alla morte, ma alla vita; questi sarebbero gli “sforzi intelligenti”: ma da dove nascono? Non sono retti da pulsioni? Da che cosa allora? E’ difficile collocare nella teoria freudiana un’attività psichica “intelligente” a prescindere dalle pulsioni.
– e poi perché, se non erro, gli “sforzi intelligenti” non possono che essere situati da Freud nell’attività di quegli “strati psichici superiori” che avevamo visto essere, poche pagine prima, protagonisti dello sforzo di “legare” l’investimento liberamente fluttuante, cioè della coazione a ripetere, cioè della pulsione di morte.
Non mi sembra di poter decodificare meglio questa affermazione di Freud, che resta un’incognita.
* 18. Dopo aver deliberatamente portato il suo ragionamento alle estreme conseguenze, cioè che tutte le pulsioni tendano alla morte, Freud torna sui suoi passi e ci introduce al dualismo della nuova teoria delle pulsioni. Nomina subito le “pulsioni sessuali” e dice che esse appaiono in una luce completamente diversa. Vi sono “organismi elementari” che appartengono alla complessa struttura degli esseri superiori il cui cammino non si conclude con la morte: le “cellule germinative”.
Esse “lavorano contro la morte della sostanza vivente” e “riescono ad attingere per essa quella che ci deve apparire come una potenziale immortalità”. Le pulsioni che “si prendono a cuore” la sorte di questi organismi elementari costituiscono il gruppo delle pulsioni sessuali:
Sono le autentiche pulsioni di vita, operano contro l’intento delle altre pulsioni che, per la loro funzione, portano alla morte; e questo fatto mostra come esista un contrasto fra queste pulsioni e le altre, contrasto la cui importanza è stata riconosciuta da tempo dalla teoria delle nevrosi. E’ come se la vita dell’organismo seguisse un ritmo irresoluto: un gruppo di pulsioni si precipita in avanti per raggiungere il fine ultimo della vita il più presto possibile, l’altro gruppo, giunto a un certo stadio di questo percorso ritorna indietro per rifarlo nuovamente a partire da un determinato punto e prolungare così la durata del cammino. Comunque, anche se certamente la sessualità e la differenziazione dei sessi all’inizio della vita non esistevano, resta la possibilità che le pulsioni che in seguito sarebbero state definite sessuali fossero attive fin dalle origini, e che il loro porsi in contrasto con l’attività delle “pulsioni dell’Io” non sia affatto cominciato solo in un’epoca più tarda.[13]
Queste parole non sono scevre di difficoltà non piccole; le “pulsioni sessuali” sono quel polo che nel dualismo pulsionale si oppone all’altro polo quello delle pulsioni di morte. Non siamo più in quell’ambito in cui tutte le pulsioni sono pulsioni di morte, questo era l’intento di Freud advocatus diaboli (come egli stesso si definisce qualche pagina dopo). Resta però il fatto innegabile che tutta la costruzione teorica che egli erige in questo scritto prende le mosse dall’osservazione di comportamenti che appaiono contraddire al principio di piacere, dalla quale osservazione viene inferita l’esistenza di un motore psichico che prescinde dal principio di piacere, motore che viene dapprima nominato “coazione a ripetere” e poi “pulsione di morte”. Quei comportamenti così anomali, a parte il gioco infantile (la cui pregnanza a questo riguardo è da Freud stesso molto ridimensionata) e i sogni post-traumatici, sono in definitiva quelli della ripetizione coatta nella traslazione durante il trattamento psicoanalitico, dei quali vien detto che non tengono conto in alcun modo del principio di piacere. Tutta la questione verte, come abbiamo visto sopra, sulla differenza fra “ripetere” e “ricordare”; ripetere o ricordare che cosa? Certamente “il contenuto rimosso”[14]; torniamo a quel discorso:
L’inconscio, e cioè il “rimosso”, non oppone alcuna resistenza agli sforzi della cura; il suo unico scopo è anzi quello di vincere la pressione cui è soggetto e riuscire o a farsi largo nella coscienza o a scaricarsi nel reale.
(…)
Guadagneremo in chiarezza se invece di istituire un contrasto fra la coscienza e l’inconscio contrapporremo l’uno all’altro l’Io coerente e il rimosso.
(…)
Dopo questa sostituzione di una formulazione meramente descrittiva con una formulazione sistematica o dinamica possiamo dire che la resistenza del soggetto analizzato proviene dal suo Io, e allora ci accorgiamo subito che la coazione a ripetere deve essere attribuita all’inconscio rimosso.[15]
Evidenzio: la coazione a ripetere deve essere attribuita all’inconscio rimosso.
Ma nell’ultima citazione che ho riportato subito prima di questa, quella del dualismo pulsionale, leggiamo: “il loro (delle pulsioni sessuali) porsi in contrasto con l’attività delle “pulsioni dell’Io”…” che significa indubitabilmente che sono le pulsioni dell’Io che vengono identificate con le pulsioni di morte. Infatti ciò non ci meraviglia, perché sappiamo che la coazione a ripetere, alias pulsione di morte, consiste nello sforzo di legare l’investimento pulsionale liberamente fluttuante, e quale parte dell’apparato psichico compie questo sforzo se non l’Io, gli “strati superiori”[16]?
Solo che questo è l’esatto contrario di quanto vien detto prima, dove la coazione a ripetere doveva essere attribuita all’inconscio rimosso, cioè a ciò che determina la reazione degli “strati superiori”, e non alla reazione stessa, alla “resistenza”.
Sappiamo bene che per Freud nulla è maggiormente preso di mira dalla rimozione che le pulsioni sessuali, per cui quando leggiamo che la coazione a ripetere deve essere attribuita all’inconscio rimosso non possiamo che giungere alla perversa conclusioneche la coazione a ripetere, cioè la pulsione di morte, deve essere attribuita alle pulsioni sessuali, cioè alle pulsioni di vita.[17]
Ma, dato che le conclusioni cui Freud giunge nel capitolo che stiamo trattando si reggono in modo imprescindibile anche sulle premesse poste nel capitolo 3, si tratta di qualcosa di piuttosto grave per un discorso logico, cioè del fatto che le conclusioni contraddicono le premesse.
Comunque, noterò ancora che il conflitto di concetti che abbiamo appena enucleato è molto molto simile a quello che avevamo notato sopra e sintetizzato nella “Questione n. 3”; infatti, abbiamo a che fare con delle “pulsioni sessuali”, espressione della pulsionalità vitale, che sono però anche, in maniera principe, “il rimosso”; ora, questo rimosso è da una parte identificato con la coazione a ripetere, dall’altra è identificato con ciò che la coazione a ripetere esercitata dagli “strati superiori” ha da legare (“pulsioni dell’Io”). Cioè si fa appello alla coazione a ripetere sia per rendere conto dell’azione del rimosso sia per rendere conto dell’azione del rimovente, cosicché tanto lo stimolo quanto il controllo dello stimolo vengono demandati allo stesso principio motore, la coazione a ripetere.
Il fatto che da due diverse strade si giunga alla stessa contraddizione è interessante; ma il tutto diviene ancor più interessante se si nota che esiste una ulteriore analogia: all’inizio avevamo riscontrato come fosse difficile identificare con chiarezza la differenza fra funzionamento del principio di piacere e funzionamento della coazione a ripetere; il principio di piacere aveva qualcosa a che fare con la tendenza alla scarica, cioè con il mantenere basso il livello energetico del sistema e la coazione a ripetere veniva chiamata in causa quale agente deputato a gestire un sovraeccitamento; le due cose non apparivano poi così diverse, tanto che avevamo fatto ricorso allo schema in due fasi a pag. 18 per poter rendere conto di una differenza che giustificasse la necessità dell’introduzione del nuovo principio motore della psiche (Conclusione n. 1). Poco dopo avevamo constatato come anche questo sforzo di precisazione concettuale fosse risultato vano, perché Freud, estendendo l’impiego del concetto di coazione a ripetere dalle nevrosi traumatiche al funzionamento normale dell’apparato psichico, annullava l’ipotizzata differenza che ci aveva illuso di poterci trarre d’impaccio. Ora, la tendenza alla scarica caratteristica del principio di piacere può essere assimilata alla pulsionalità, mentre abbiamo visto che la coazione a ripetere ha il compito di “legare” l’investimento liberamente fluttuante derivante da questa pulsionalità medesima, che altrimenti avrebbe conseguenze analoghe a quelle della nevrosi traumatica. Quindi, tanto principio di piacere quanto coazione a ripetere hanno il compito di abbassare il livello dell’investimento liberamente fluttuante.
Ne deriva che, anche in questo caso, c’è qualcosa che dovrebbe essere diverso mentre risulta uguale (o viceversa, il che è la stessa cosa). Principio di piacere e coazione a ripetere, che Freud si sforza di separare, tornano inesorabilmente a confondersi, a risultare indistinguibili.
– questione n. 4:
Sembra pertanto caratteristico di questo scritto di Freud il manifestarsi di contraddizioni sostanziali in più punti; tali contraddizioni, a loro volta, appaiono riconducibili a una, fondamentale: il tentativo di istituire un modello dualistico del funzionamento pulsionale necessita dell’individuazione di due principî motori, opposti o dialettici, ma ogni volta che Freud tenta di definirli, di separarli, questi concetti tornano indietro, si riconfondono in uno.
* 19. Questo per ciò che concerne le contraddizioni interne del discorso; quella che segue è invece una breve digressione relativa a una critica che si può portare a questo stesso discorso dall’esterno, quindi di minore importanza rispetto all’analisi del testo freudiano, che però mi sembra possa rivestire un qualche interesse.
Il passaggio dall’espressione “coazione a ripetere” all’espressione “pulsione di morte” non è certo una questione che ci preoccupi solo dal punto di vista terminologico: è in gioco tutta una visione del mondo, una filosofia o, senza andare così lontano, perlomeno l’orizzonte di fondo entro il quale la psicoanalisi si muove. Pertanto, il ragionamento con il quale Freud compie questo passaggio, sopra riportato, è un ragionamento-chiave dell’intera opera. Esso consiste nel rilevare il carattere conservatore delle pulsioni, la loro tendenza a ripristinare uno stato precedente, e nel far notare che non c’è nulla di “più precedente” che lo stato inorganico, cioè la non-vita.
Contro la ripetitività, il ritornare indietro, della pulsione di morte ci si attende qualcosa del cambiamento e dello sviluppo dalle pulsioni di vita, le pulsioni sessuali.
Ora, con le dovute cautele nell’affrontare temi appartenenti ad altre discipline, mi pare di poter esprimere un’opinione; perché, nel momento in cui immaginiamo “l’organismo elementare” di Freud dovremmo credere che la sua supposta tendenza conservatrice si riferisca al ritornare indietro a uno stato che sia esterno a se stesso, cioè a quello inorganico morto, e non al ritornare sempre verso uno stato interno alla sua essenza e cioè a un proprio equilibrio vitale? Vediamo subito che questo interrogativo riporta a quello iniziale sulla differenza fra la tendenza a zero e la tendenza a un livello omeostatico diverso da zero. Tendere a zero significa tendere allo stato morto, perché nella morte la “tensione vitale” è nulla, ma tendere a un livello omeostatico diverso da zero è caratteristicodella vita; non c’è nulla di cui meravigliarsi nel fatto che gli organismi viventi mostrino una tendenza all’equilibrio, visto che senza equilibrio non è immaginabile la sussistenza nel tempo di un essere vivente. Quella “sorta di elasticità organica” di cui Freud parla sembra qualcosa di assolutamente necessario perché la vita esista, e non la ragione per credere che la vita tenda alla morte.
Altra questione: la ripetitività è presa come quintessenza della tensione verso la morte, mentre le “pulsioni vitali” dovrebbero tendere al “cambiamento” e allo “sviluppo”. Ora, si sa che la moderna biologia è convinta del fatto che la vita abbia potuto iniziare nel momento in cui una molecola venuta a crearsi nell’ambiente primordiale ha acquisito la capacità di riprodursi. Questa è proprio la caratteristica fondamentale del DNA, che è la molecola che rende biologicamente ragione della vita: esso è in grado di produrre una copia di se stesso; e lo fa; ed è proprio perché lo fa che la vita esiste e continua. Pertanto, se non erro, giungiamo a conclusioni assolutamente opposte a quelle di Freud: la ripetitività è la quintessenza della vita, non della tensione verso la morte.
Lo “sviluppo” e il “cambiamento” (le “variazioni” di Darwin, potremmo dire), sono un altro aspetto della vita, e sembrano semmai entrare in un rapporto dialettico con la tendenza alla conservazione, all’interno della vita stessa e per il suo stesso dispiegarsi, non l’uno dei due principî verso la vita e l’altro verso la morte.
[1]S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pag. 216.
[2]S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pag. 218.
[3]S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pag. 219.
[4]S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pag. 199.
[5] ibidem, pag. 209.
[6]S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pagg. 220-221.
[7]S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pag. 222.
[8]S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pag. 223.
[9] Ibidem, pag. 224.
[10]S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pag. 224.
[11] Ibidem, pagg. 224-225.
[12] S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pag. 225.
[13] Ibidem, pagg. 226-227.
[14] S. Freud, Al di là del principio di piacere, Op. cit., pag. 204.
[15] Ibidem, pagg. 205-206.
[16] Vedere citazione sopra riportata a pag. 21, (nota n. 16).
[17] È d’altronde quanto avevo già notato sopra a pag. 23.