Il Soggetto e l’Altro. Cosa può dire la psicoanalisi
sulla capacità di intendere e di volere
(da Mercoledì 5 Ottobre h. 19.00)
Lezione 4
La perizia sulla capacità di intendere e di volere III
È facile fare la critica a ciò che gli altri avanzano nel loro modo di prendere le cose; dobbiamo anche cimentarci con qualcosa di più, che ci consenta di formulare qualche idea maestra su cosa si debba invece intendere per capacità/incapacità di intendere e per capacità/incapacità di volere.
Perché diciamo che l’uomo del primo caso, quello della faccia di Cristo artigliata dal polpo d’acciaio, non era – innanzitutto – capace d’intendere? Abbiamo tutti una risposta sulla punta della lingua: perché quello che dice non corrisponde alla realtà. Bene, è precisamente la risposta che non conviene dare; infatti, se lo facessimo, ci troveremmo immediatamente in un ginepraio, dato che dovremmo allora dire che cos’è la realtà, il che è tutt’altro che agevole. Perché la realtà non è una, perché le persone pensano e credono cose diverse riguardo alla realtà e perché la stessa persona può pensare cose diverse della stessa realtà in momenti o contesti diversi. Dovremmo poter dire in modo univococosa sia la realtà. La scienza cerca di farlo, ma nessun scienziato con le rotelle a posto si sognerebbe di dire che ciò che descrive la scienza sia, tout court, la realtà. Si limiterebbe saggiamente ad affermare che la scienza fornisce descrizioni della realtà più affidabili, più obiettive, più verificabili; non sarebbe così ingenuo da credere d’aver colto il vero. Ma, c’è di peggio: quante sarebbero le persone capaci d’intendere e di volere se dovessimo limitare il loro numero a coloro che forniscono descrizioni della realtà scientifiche?
Sotto casa mia, c’è quasi sempre un tavolino con due seggioline; lì una signora, provvista di mazzo di carte, non è mai priva di lavoro. L’altra seggiolina è quasi sempre occupata da una cliente, desiderosa di conoscere cosa gli accadrà in futuro, cioè ciò che la signora provvista di mazzo di carte è perfettamente in grado di dirle. Nessuno di noi pensa che l’una e l’altra siano incapaci di intendere e di volere, nonostante quel che fanno abbia ben poco da spartire con la realtà. Perché? Perché quello che fanno è, nella nostra cultura, in qualche modo condiviso; non da tutti, non senza critiche, lazzi e burle, ma nella nostra cultura c’è un’area che può essere occupata “legittimamente” dalla cartomanzia; ciò a stretto contatto con l’altra area, quella della scienza, senza che questo provochi, normalmente, alcuna scintilla.
Allora, mi pare più proponibile l’idea che ciò che governa il giudizio di capacità di intendere sia la condivisibilità dell’interpretazione proposta della realtà, non la corrispondenza fra interpretazione e realtà medesima. Questo potrà aiutarci di più.
Nel 1935, Heinrich Himmler fondò la Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe, “Fondazione per la ricerca sull’eredità ancestrale tedesca”, che più tardi entrò a far parte dell’organizzazione delle SS. Non bisogna pensare che si trattasse di una cosa da poco; l’organizzazione contava decine di dipartimenti, dedicati ciascuno a un diverso ramo dello scibile, botanica, astronomia, antropologia, archeologia, ecc. Lo scopo era quello di creare un fondamento scientifico alla concezione dell’Idealtypus, in altre parole della razza ariana, delle sue origini e della sua storia e cultura. Furono organizzate spedizioni di ricerca antropologica e archeologica in tutto il mondo, dal Tibet al Sudamerica, del costo di centinaia di migliaia di marchi. Per il viaggio in Tibet, la spedizione si imbarcò a Genova, nel 1938.
Perché parlo di questo? Perché la teoria sottostante a questo enorme sforzo di ricerca era che a seguito della distruzione di Atlantide (!), un gruppo di saggi e superiori sopravvissuti dell’originaria super-razza si sparse per tutto il mondo, lasciando segni dell’antica ineguagliabile cultura nelle altre civiltà. Atlantide! Addirittura. Non solo, ma cercavano anche il Graal, tra l’altro. Oggi, noi definiamo deliranti queste idee, ma allora nessuno di coloro che ideò, partecipò, sviluppò e credette tutto questo veniva certo giudicato incapace d’intendere; ci fu un processo storico, il processo di Norimberga, dove furono anche pronunciate condanne a morte; e non sarebbe stata quella la sede di far valere una eventuale incapacità di intendere (o di volere)? A nessuno venne neanche lontanamente in mente l’idea che i gerarchi nazisti non fossero processabili perché incapaci di intendere e di volere, anche se si erano messi alla ricerca del Graal per mezzo dell’organizzazione di Himmler.
È per queste ragioni che credo che il concetto di condivisione sia migliore di quello che pretenderebbe di confrontare un’affermazione con la realtà. Negli anni ’30, in Germania, era normale credere cose del genere, parlarne e spendere un sacco di soldi per rintracciarne le prove storiche, archeologiche e scientifiche; per noi, l’omino che vede una faccia di Cristo artigliata da un polpo d’acciaio è incapace di intendere (la realtà) perché non possiamo condividere quello che pensa/vede. Per farlo, per identificarci con lui, dovremmo credere – ad esempio – che qualcosa di magico è in funzione, che qualcuno possa realizzare un’immagine come quella, cioè un Cristo con la sua faccia, che quell’immagine sia stata prodotta da una volontà persecutoria che lo minaccia e quindi dovremmo accedere a un mondo di demoni e di sortilegi che non ha posto nella nostra cultura se non come trama di film fantastici o del genere horror. Se un altro omino va a chiedere che un mazzo di carte gli racconti cosa accadrà domani, invece è normale; perché tutte le mattine, quando accendiamo la televisione per sentire il telegiornale, ci troviamo invece l’oroscopo; e quindi quello è un mondo che ha per noi diritto di cittadinanza, anche per coloro che non si sognano neppure di crederci. In altre parole, vi sono organizzazioni di significati che sono percepite come facenti parte della cultura e quindi chi le pensa è ritenuto “normale”; chi non è ritenuto normale è il soggetto che pensa cose bizzarre non perché non corrispondenti al vero, ma perché collocate fuori dal “normale pensare”.
È tutto qui? Noi ci riferiamo alla capacità d’intendere come qualcosa che riguarda semplicemente la condivisibilità di ciò che una certa interpretazione della “realtà” esprime? Ciò che differenzia l’omino del polpo d’acciaio e l’omino che si siede dalla cartomante per conoscere il proprio futuro è forse solo il fatto che l’uno si muove su un piano astruso non condiviso e l’altro su un piano, non meno astruso, ma facente parte del nostro quotidiano modo d’intendere il mondo?
Non mi pare che sia così. I due si differenziano anche per la misura, diciamo così, in cui credono in ciò che pensano. L’omino del polpo d’acciaio è talmente convinto di ciò che dice che chiama in causa le forze di polizia, si scontra con loro, affronta un processo e va in carcere; cosa bisogna dire di più per mostrare quanto sia stato impossibile, per lui, lasciar perdere, transigere. Sappiamo bene, invece, che se non tutti almeno la maggior parte degli omini che si siedono dalla cartomante dopo un minuto non si ricordano neanche più di ciò che è stato loro pronosticato; se, ad esempio, fosse stato loro detto che vinceranno dieci milioni di euro la prossima settimana, andranno tutti a lavorare lo stesso e nessuno penserà davvero di poterne fare a meno perché sarà ricco nel giro di pochi giorni. Se qualcuno ci credesse sul serio e, per ciò, si licenziasse dal lavoro, cominceremmo a dubitare che sia capace d’intendere e di volere…..
Questo significa che chi va dalla cartomante a farsi predire il futuro lo fa in un certo modo, colloca l’“oracolo” in una dimensione di fantasia, interpreta la predizione di una vincita in senso lato, ad esempio, immaginando che possa significare dell’altro, magari che sarà – genericamente – fortunato, e non comprerà neppure il biglietto della lotteria. Cioè, ciò che gli viene detto provenendo dall’aldilà sarà inteso in modo non vincolante, perché non sussiste – per questi omini – la supposizione di un rendez-vous totale fra simbolico e reale; se ci fosse, la predizione, essendo supposta provenire dall’Altro, un Altro infallibile (non barrato), rappresenterebbe la descrizione precisa dell’avvenire e non vi sarebbe alcun margine di manovra, come nel delirio. È quello che è accaduto, invece, all’omino del polpo d’acciaio.
Allo stesso modo, nessuno ha pensato che gli imputati di Norimberga credessero alla realtà della loro ricostruzione pseudo-storico-scientifica dell’origine della razza germanica. Probabilmente, la valutazione generale, magari non esplicitata, ma operante, fu che si trattasse di comode produzioni propagandistiche e nient’altro; (magari no, magari qualcuno credeva, e allora andrebbe preso come qualcuno il cui delirio si era armonizzato con la cultura dominante).
Ecco che, quindi, la valutazione della capacità d’intendere di qualcuno verte innanzitutto sul fatto che egli produca pensieri improntati a una visione condivisa del mondo, e non qualcosa di astruso o bizzarro; quando qualcosa di strano appare, però, è importante domandarsi se egli vi creda, nel senso delirante, o no, cioè se possa – accanto a quella interpretazione del mondo – pensarne altre e non cascare del tutto dentro a qualcosa.
A questo punto, direi che gli elementi fondamentali per la cosiddetta “capacità d’intendere” sono stati nominati.
Ma c’è qualcosa che può ancora sfuggirci: se qualcuno fornisce interpretazioni plausibili dell’esperienza, è tout court capace d’intendere? Non succede forse che ci sorga il dubbio sulle “facoltà mentali” di qualcuno solo quando egli inizia a dire stranezze?
Questo è un problema, perché sono convinto che si possa delirare senza che si veda, cioè dicendo cose assolutamente plausibili. Il delirio che c’è in queste cose assolutamente plausibili può allora poi manifestarsi se succede qualcosa, altrimenti può rimanere fuori vista anche per sempre.
La perizia sulla capacità di intendere e di volere II
Può essere che ci troviamo ad esaminare il caso di qualcuno che abbia commesso, o tentato di commettere, un delitto per ragioni che possiamo rubricare sotto la categoria del delitto per gelosia, e che abbia pertanto diretto il proprio intento di offendere nella direzione di un rivale.
Possiamo pertanto attingere a un contenuto di pensiero, immaginabile, che riguarda la volontà di non perdere la persona oggetto dei propri interessi, l’individuazione di qualcuno che rappresenta una minaccia in tal senso (il rivale), il venirsi a determinare – in una maniera da definire – dell’intento soppressivo nei confronti di costui. Se non partiamo da un’ideazione in qualche modo definita, comprensibile, sia pur ipotetica (e allora sarà lo sviluppo dell’analisi a sostenere o demolire l’ipotesi), non si vede come si possa poi argomentare sulla capacità di intendere e/o di volere.
Se esiste una persona bramata, se esiste qualcuno che ha compiuto o compie attività di avvicinamento verso tale persona al fine di guadagnarne i favori, l’atto delittuoso ha una sua logica precisa che concerne la capacità di collocare correttamente nell’ordine della realtà, cioè dell’immaginario, la posizione dei soggetti, i loro intenti, il rischio che si corre di perdere l’oggetto d’amore, e quindi l’azione delittuosa finalizzata al controllo, che è si un controllo deviante, ma è logicamente provvisto di senso, degli eventi. In questo quadro, in linea di principio, non si vede perché si dovrebbe avanzare l’obiezione dell’incapacità di intendere, perché il quadro psichico è formulabile, esplicitabile e provvisto di consequenzialità.
Quando accada che il soggetto riferisca d’aver capito che il tale stava minacciando la propria relazione amorosa perché tutti i giorni, alle sei del mattino, poneva sul balcone la gabbia dei canarini i quali, iniziando a cantare alla luce del giorno, costituivano un segnale per la propria consorte, bisogna cominciare a porsi qualche domanda. Possiamo ad esempio domandarci se c’è dell’altro che possa collocare realmente il tale come attivo rivale in amore, oppure solo i canarini; dovremo comunque esaminare un contesto di fatti e circostanze, ma se giungiamo alla conclusione che l’azione dalla quale il reo si difende è quella della gabbia dei canarini, non potremo sottrarci all’idea che da qualche parte un delirio sia in funzione, un delirio di gelosia che porta il soggetto a interpretare l’esperienza della vita, con tutte le piccole casualità dell’accadere quotidiano, come provvista di significato e di un particolare significato, concernente proprio ciò costituisce la sua organizzazione delirante; il fatto che qualcuno ponga una gabbia d’uccellini sul balcone di fronte è fondamentalmente privo di significato per lui; l’idea che la ponga per fare segnalazioni amorose costituisce l’annessione del particolare casuale da parte del delirio; solo attraverso tale anschluss il particolare acquista un senso per il soggetto. Ora, questo modo di funzionare, che è caratteristico del delirio, non certo solo quello amoroso, è un modo di perdere la capacità d’intendere; perché l’interpretazione dell’esperienza è colta da una posizione che fondamentalmente e radicalmente mette una cosa al posto di un’altra.
Si vede qui che le cose acquistano una loro comprensibilità se vengono svolte alcune considerazioni sulla (supposta) catena ideativa che sostiene il delitto; senza di essa, non si vede come e su cosa si argomenti in merito alla valutazione della capacità di intendere e di volere. Quando, ad esempio, si vede argomentare in una perizia che il tale non era capace d’intendere e di volere perché l’eccesso di emozione che accompagnava la sua gelosia lo aveva in ciò vulnerato, non si comprende l’argomento; se l’azione delittuosa è stata commessa nei confronti di un reale rivale in amore, (proseguo sulla linea del delitto per gelosia), si potrebbe addirittura argomentare il contrario: nonostante l’eccesso di affetto in atto, l’eccesso di emozione, egli è stato ben capace di dirigere la propria aggressività, propriamente, contro l’appropriato oggetto; pertanto è ben capace di intendere e di volere. L’argomento dell’eccesso di emozione è privo di senso e di valore, dal punto di vista della perizia. Esso è un tipico argomento di stampo medicale, laddove si vorrebbe immaginare un medio in cui starebbe la virtus del ben funzionare fisiologico; mentre un qualche eccesso, di pressione, di alcool, o di emozione, porterebbe il corpo in un regime patologico di funzionamento. Ma non di è questo che si tratta; si tratta invece di capire cosa e come qualcuno ha pensato, e quindi non bastano considerazioni pseudo-quantitative. Che, oltretutto, quantitative non sono, perché dov’è la misura dell’emozione e di quanta emozione è normale e quanta è patologica? E anche se ce ne fosse parecchia di emozione, in che modo ha determinato l’asserita incapacità? Attraverso quale effetto sulla catena ideativa?
Ciò vale, naturalmente, anche per la depressione; non è un argomento il fatto che qualcuno – essendo depresso – era in capace di intendere (o di volere); anche per una depressione patologica; per una depressione psicotica (se ammettiamo la depressione come categoria nosografica), è anche possibile che si sia verificata una qualche incapacità, ma perché – se vi è psicosi – è probabile che da qualche parte qualcosa abbia fallito nella capacità di interpretare o nella capacità di volere, non perché vi era depressione. La disforia, di per sé, non è un motivo adducibile di incapacità di intendere o di volere, a meno che non si mostri dove e come tale incapacità si sia estrinsecata.
Si può portare un esempio tratto da un testo sulla perizia appunto, un po’ modificato perché – come sempre – ci interessano gli aspetti teorici della questione, non fare la critica a qualcuno. Si tratta di una madre che, dopo aver ucciso uno dei propri due bambini, stava procedendo a uccidere l’altro e non vi è riuscita solo per il fortuito intervento di una terza persona, che l’ha fermata.
Le conclusioni della perizia indicano una totale incapacità di intendere e di volere, dovuta a infermità mentale; tale infermità è definita come “stato di depressione”. Viene evocato dalla letteratura il concetto di “suicidio allargato”, per spiegare l’insano gesto delittuoso, consistente nel fatto che qualcuno sopprime persone amate per non lasciarle vivere nella condizione di solitudine e abbandono conseguente al proprio suicidio; tale comportamento è stato riferito da diversi Autori alla melanconia.
Si potrebbero osservare molte cose, ad esempio il fatto che – stranamente – l’anamnesi riportata in perizia non mostra alcun elemento che riguardi una diagnosi di melanconia. Ma non è su questo piano che interessa esaminare il caso, perché ciò che viene a mancare – anche qui – pare essere la connessione fra i fatti, il delitto, e l’ideazione. Si apprende, invero, che il preciso momento del reato è descritto come segue: la donna stava lamentandosi con il marito, facendogli presente la propria sofferenza per il comportamento di lui, che aveva un’altra donna, quando egli si girò dall’altra parte e riprese a seguire la partita di calcio alla televisione, la sera. Dunque lei prese i bambini e uscì e commise il delitto. Appare stupefacente che le conclusioni processuali esprimano la ferma convinzione che quindi, in tutto ciò, nulla dell’ira fosse intervenuto. La donna avrebbe agito per sottrarre i bambini al loro triste destino e a nessuno venne in mente che il crimine avesse invece il chiaro intento di colpire nel modo più doloroso possibile l’insensibile marito, in un accesso d’ira non controllato. Al di là di questo, che è comunque opinabile, sorprende che non si sia preso in considerazione quale avrebbe potuto essere stato il corso dei pensieri della donna in quel momento, e in che cosa tale corso di pensieri sarebbe stato viziato e inficiato dall’infermità. Al contrario, si procede per categorie, affermando che c’è melanconia e che là dove c’è melanconia ci può essere suicidio allargato; che, inoltre, il suicidio allargato è significativo di patologica intenzione protettiva.
L’argomentazione che, intanto, la catena ideativa non si può conoscere, né tantomeno conoscerla scientificamente, come è di moda oggi, è un’argomentazione irrisoria, perché qualunque conclusione peritale, come quella esposta per esempio, suppone una catena di pensieri alla base del delitto; il fatto che la supponga implicitamente, non fa che peggiorare la situazione. Meglio, in ogni caso, formulare un’ipotesi esplicita. Allora, nel caso in esame, dovrei supporre che il pensiero sottostante al crimine, consapevole o inconsapevole, fosse una cosa del genere: “visto che mi suiciderò perché non voglio più vivere, almeno risparmierò la solitudine e l’abbandono ai miei bambini”. Considerato che il reato è stato commesso nella sequenza descritta, e cioè dopo che il marito si è disinteressato alle parole della moglie, non è logico immaginare un: “Ah! Non mi ascolti? Sei indifferente? Vedrai che ora riuscirò a smuoverti!”. Immaginare che la moglie si rivolga al marito esprimendo la propria sofferenza, lui si volti dall’altra parte disinteressandosene e lei pensi: “Visto che morirò, meglio che muoiano anche i miei bambini”, è comico, se non fosse tragico; in ogni caso è paradossale. Se anche accettassimo l’idea del suicidio allargato, mancherebbe un anello logico e, se mettessimo in sequenza le due catene ideative, cioè:
1) “Ah! Non mi ascolti? Sei indifferente? Vedrai che ora riuscirò a smuoverti! Mi suciderò”
2) “Visto che mi suiciderò, almeno risparmierò la solitudine e l’abbandono ai miei bambini”
tutto acquisterebbe nuova luce e comprensibilità. Ma, se così fosse, nulla resterebbe, ovviamente, della pretesa totale incapacità d’intendere e di volere e si tratterebbe di un ben preciso disegno di omicidio volontario, che avrebbe comportato ben altra pena.
Si vede, dunque, che laddove si eviti di interrogarsi su cosa abbia pensato il reo o – se vogliamo – da cosa il reo sia stato pensato, o qualora lo si supponga implicitamente, si creano degli effetti paradossali, che tutto hanno meno la capacità di spiegare il crimine.
Lezione 2
La perizia sulla capacità di intendere e di volere I
Leggendo numerose perizie sulla “capacità d’intendere e di volere” riguardanti diversi delitti compiuti in Italia negli ultimi anni, si resta colpiti dal divario che sussiste, in modo palese, fra la domanda posta dal magistrato e la risposta fornita dal perito.
La questione posta dal giudice è spesso precisa e concerne aspetti che ben si capiscono, in tutta evidenza; ad esempio:
“Dica il perito:
1) se ……… manifesti segni o sintomi psicopatologici ed in caso affermativo di che tipo e di quale gravità
2) se sulla base dell’esame clinico effettuato, dalle risultanze delle indagini svolte e di tutti i dati disponibili, vi siano elementi indicativi della presenza di un disturbo psicopatologico al momento del reato, ricostruendone l’evoluzione cronologica e lo sviluppo fenomenico
3) se tale disturbo sia idoneo a determinare ed abbia in effetti determinato un funzionamento psicopatologico del soggetto al momento del reato, tale da incidere sulla capacità di comprendere il significato del comportamento e/o di agire in conformità dello stesso (……..)
4) se sussiste un rapporto di causa tra il funzionamento psicopatologico evidenziato e quel fatto reato, in modo che il primo possa essere qualificato come condizione necessaria del comportamento illecito
5) se il disturbo psicopatologico persista al momento dell’indagine peritale e quale prognosi debba essere formulata relativamente alle possibilità ed alle necessità terapeutiche del caso, (………..)
6) se ……….. debba essere allo stato considerato socialmente pericoloso o meno.”
Il quesito, ripreso da un recente caso, è stato solo leggermente modificato per renderlo il più possibile anonimo, dato che l’esame specifico dei casi non è ciò che ci si prefigge in questa sede, dove vengono invece priviliegiati gli aspetti generali e teorici; si vede come il magistrato chieda se è formulabile una diagnosi in campo psicopatologico, come primo punto. Cioè domanda se il soggetto sia affetto da una qualche forma di patologia psichica a prescindere dal fatto delittuoso. Infatti, la questione diagnostica si pone in generale e non solo in riferimento a un evento di rilevanza penale.
Il secondo punto del quesito è intelligente e importante; se anche si giunge alla formulazione di una diagnosi di significativa gravità, ad esempio una diagnosi implicante aspetti strutturali psicotici, non è affatto scontato che gli elementi invalidanti sulla capacità d’intendere e di volere tipici di una tale patologia fossero operanti al momento del reato. Si sa, ma nel caso lo si dimenticasse è bene ricordarlo, che gli psicotici, anche gravi, con fenomeni allucinatori o deliri conclamati strutturati, non sono sempre nel sintomo. Esistono porzioni più o meno ampie della loro esistenza, del loro tempo, in cui si comportano in maniera normale, paragonabile a quella dei soggetti “sani”, reagendo come altri reagirebbero e mostrando un’emotività non dissimile da quella degli altri. Questo in misura variabile, a seconda della pervasività del funzionamento patologico rispetto al resto. I soggetti psicotici possono farsi il caffè al mattino, dire “buongiorno”, ringraziare per una cortesia ricevuta o arrabbiarsi per un torto; non sono psicotici in ciò. Quando qualcosa, della loro esperienza quotidiana, li porta a contatto con regioni problematiche del loro funzionamento psichico, di colpo si apre una porta un po’ particolare – che per i soggetti non psicotici tende a non aprirsi mai o quasi mai– e da quel momento sono governati dal sintomo, in maniera e in misura patologica. Prendendo come esempio il soggetto che vedeva un Cristo con la sua faccia, la cui testa era artigliata da un polpo d’acciaio, possiamo senz’altro immaginare che egli, al mattino, si sia svegliato, si sia lavato la faccia, sia uscito, sia andato al bar a prendere un caffè e si sia poi recato al lavoro; o qualcosa di analogo. Se così non fosse, tutti coloro che delirano non potrebbero fare nulla nella vita e dovrebbero essere internati; non è così: molti, la maggioranza, vivono affrontando la quotidianità in maniera adeguata. Per costui, a un certo punto, l’immagine di un Crocifisso, o qualcosa del genere, ha aperto repentinamente un registro di funzionamento alieno e la struttura delirante latente ha preso aggancio con la percezione corrente dando luogo a un’interpretazione delirante del momento; il delirio ha fatto irruzione nella vita quotidiana ed è successo quello che è successo.
Quindi, non basta dire che sia determinabile una sindrome psicopatologica, anche grave, per affermare che vi sia stata in capacità d’intendere e di volere; è chiaro. Il funzionamento patologico era in atto, al momento del reato?
Il terzo elemento del quesito del magistrato è ancor più preciso, ma va comunque nella stessa direzione. Credo che sia chiaro che quello che è implicato, in questo terzo aspetto, è precisamente il meccanismodel fatto; il perito dovrebbe articolare attentamente la struttura psicopatologica eventuale e l’eventuale funzionamento sintomatico al momento del reato con l’azione delittuosa stessa. Sintomo e reato annodati, cioè, in modo esplicito e in modo che emerga l’eventuale implicazione per la capacità d’intendere e la capacità di volere. Con ciò si tratta anche del quarto punto. Il giudice chiede cose precise; pone, in effetti, le questioni peculiari sulla capacità d’intendere e di volere, le quali – per mancare – richiedono che qualcosa di anomalo sia entrato in gioco in modo descrivibile ed esplicitabile. Il quesito è chiaro, non lascia dubbi. Semmai, i dubbi vengono in merito ai concetti di capacità d’intendere e di capacità di volere; essi non sono certo facili da definire, non lo sono, definibili, in modo univoco e indubbiamente coinvolgono la teoria di riferimento del perito. Nessuno ci darà in pasto l’idea che esista un concetto oggettivo, o scientificamente determinabile, di capacità d’intendere e/o di volere.
In questo ambito permangono dubbi, ma non sul contenuto del quesito del magistrato.
Ora, ciò che si trova normalmente – non dico sempre – ma spesso e volentieri nelle risposte peritali non è assolutamente all’altezza di ciò che viene richiesto.
Facciamo un esempio, anche qui cambiando un po’ i termini per mantenere l’anonimato del caso. Ecco come si conclude una perizia recente:
X……. Y…… non decide secondo il raziocinio, ma seguendo gli schemi della sua psiche immatura. La sua volontà è legata alle sue modalità di tipo paranoico e dipendenti.
Egli non è segnato da alcuna psicopatologia, ma la sua personalità immatura è tale da poter affermare che al momento reato, egli non fosse capace d’intendere e di volere.
Non si vede davvero in cosa consista l’incapacità, sia d’intendere sia di volere, del caso in questione. Non si vede come la problematicità personale abbia agito; in che cosa si riscontri che è venuta meno la capacità di intendere e di intendere che cosa. In che cosa sia mancata la capacità di volere e dove, nello svolgimento dei fatti, la volontà abbia fallito. Tutto ciò è assente; non basta affatto mettere in risalto alcuni elementi problematici del funzionamento psichico di qualcuno e poi saltare alla conclusione che quindi quel qualcuno è più o meno capace di intendere e/o di volere. Quel “quindi” salta le argomentazioni che sarebbe necessario fornire per mostrare perché e come si giunge a certe conclusioni. Eppure, come abbiamo visto, quando un magistrato pone un quesito, lo fa in maniera precisa e dettagliata e richiede proprio ciò che – in questi casi – va richiesto; cioè in che modo l’eventuale patologia abbia agito al momento del reato. In realtà, per rispondere correttamente, bisogna assumere tutt’altra prospettiva. Bisogna, innanzitutto, comprendere la catena ideativa che ha sostenuto l’azione delittuosa.
Questo è effettivamente il primo passo da compiere nell’affrontare la questione della capacità d’intendere e di volere di qualcuno; in che modo il fatto delittuoso ha costituito il passaggio all’atto con il quale si è conclusa una certa dinamica psichica? In cosa consisteva la tensione che ha portato al fatto?
Solo dopo che è stata formulata un’ipotesi sulla concatenazione di pensieri che stavano dietro al crimine, ci si può interrogare sulla tenuta logica del funzionamento psichico e formulare le valutazioni conseguenti.
Lezione 1
Capacità d’intendere e di volere
La vacillazione del significante
Un uomo sulla quarantina va via dal suo paese per andare a vendere oggetti nei mercati all’altro estremo d’Italia; va via perché – dice – riceveva vessazioni di tutti i generi e anche il sindaco del paese s’era messo a fargliene di tutti i colori; la moglie lo lascia e perde anche il buon posto di lavoro che aveva là.
Durante uno di questi mercatini, vede che un altro che sta vendendo oggetti come lui, espone un grande crocifisso; solo che il Cristo ha la sua faccia e sopra la testa reca un grosso polpo d’acciaio che la sta artigliando. Preoccupato da quella vista, chiama i Vigili Urbani, dicendo che è minacciato da quell’altro e chiedendo loro di accertarne le generalità. I Vigili gli chiedono perché e lui spiega della faccia uguale alla propria e del polpo; naturalmente, nasce un diverbio e alla fine i Vigili chiamano i Carabinieri, e ne deriva un parapiglia. Alla fine, l’uomo viene processato, condannato per resistenza a Pubblico Ufficiale e portato in galera.
Al colloquio psicologico Nuovi Giunti, “qualcuno” si accorge che delira, finalmente, e viene trasferito; ma non doveva neanche essere processato, perché totalmente incapace di intendere e di volere. Nessuno si è accorto che delirava ed è stato processato come un attaccabrighe con le Forze dell’Ordine.
Ha avuto a che fare con Vigili, Carabinieri, l’Avvocato, il PM, il Magistrato che l’ha condannato; nessuno si è accorto che delirava. Magari, si può dire che non è il loro mestiere, ma davanti a uno che parla di una faccia di Cristo uguale alla propria, artigliata da un polpo metallico, e quindi chiama i Vigili, ecc. ecc., qualche sospetto dovrebbe venire a chiunque…. Ebbene, non è venuto. Perché?
C’è un’evidenza che copre un’altra evidenza; c’è qualcosa che appare evidente a qualcuno: “Questo ci sta pigliando in giro…” e questa evidenza nasconde il fatto che è evidente che costui delira. Che cosa ha impedito di accorgersene?
Certamente, si è trattato di una situazione limite, ma – proprio per questo – è particolarmente utile per mettere in risalto qualcosa che altrimenti è difficile da mostrare. Sarebbe stato necessario che qualcuno cogliesse il fatto che quell’uomo non stava dicendo: ”So bene che lì non c’è niente del genere di quello che sto dicendo, ma – per qualche ragione a voi ignota – voglio insistere sul fatto che costui mi sta minacciando e voglio conoscere le sue generalità; quindi vi prendo per il naso raccontandovi storie demenziali”. Non stava facendo quello; stava dicendo: “Ho visto un Cristo con la mia faccia e un mostro d’acciaio che lo artiglia; mi ha preso un’angoscia infinita, perché ho capito che chi mi stava mettendo di fronte a tutto ciò stava in realtà ponendo violentemente in questione la mia persona, alludeva a qualcosa che mi riguardava, mi minacciava e ho avuto bisogno di chiedere aiuto a qualcuno che – essendo un rappresentante delle forze dell’ordine – avrebbe dovuto proteggermi”.
Sono due giri di parole che forniscono una scenografia – un senso – completamente diverso delle stesse identiche parole pronunciate da quell’uomo. È quello che si chiama interpretare ciò che viene detto; interpretare è collocare una fila di parole in relazione a uno scenario immaginario, concernente cioè la rappresentazione che si dà della realtà in quel momento. In realtà, interpretiamo molto più spesso di quanto crediamo, perché frequentemente ciò che udiamo è solo apparentemente evidente e univoco. Allora, si vede che la fila di parole pronunciata in questo caso – Cristo con la mia faccia, polpo d’acciaio, minaccia – funziona come un cardine sul quale ruotano diverse rappresentazioni della realtà fino a collocarsi davanti ai nostri occhi, mentre le altre sfilano fuori vista; infatti, non è detto che siano due, possono essere diecimila.
E qui sta la questione; per collocarsi in questo punto di osservazione, dal quale si assiste al ruotare di una realtà-giostra che si mostra vorticosamente con un cavallino dondolante, una carrozza, un drago e via via velocemente una mongolfiera, una barca, un’automobilina ecc. ecc…. ci vuole una speciale disposizione d’animo. L’angoscia derivante dalla vertigine in cui si è presi non ha niente a che fare con il piacere, mentre il normale funzionamento immaginario richiede, o meglio spera, che si possa fermare la giostra e capirci qualcosa. Tutti coloro che hanno avuto una parte in questa storia- vera, non l’ho inventata – soffrivano particolarmente di vertigini, diciamo così, e non amavano esperire la mutevolezza del senso. Questo fatto, che quando qualcuno parla non dice solo quello che dice, ma dice anche dell’altro, è una cosa che terrorizza.
La vorrei chiamare vacillazione del significante; il significante, cioè la parola, non vuol dire niente e assume un significato solo a posteriori, quando ci passa davanti la barchetta e diciamo: “è una barchetta”. In effetti, non ci possiamo attaccare a niente, perché un attimo dopo è un cavalluccio marino. Ciò che al primo vorticoso giro ci appare come un attaccabrighe indisponente, al secondo si rivela essere, anche, un poveraccio preso in un delirio da cui non può venir fuori.
Questa impossibilità di collocare la parola in un rapporto saldo con il reale costituisce il soggetto umano come privo di fondamenta; che è proprio l’horribile visu verso il quale si può assumere quell’atteggiamento radicalmente evitante che può far accadere una cosa come quella che ho raccontato.
A proposito della valutazione della capacità d’intendere e di volere, vorrei allora introdurre un concetto che, spero, sia un po’ rivoluzionario; è il concetto di capacità d’intendere (e di volere) del periziante, da considerare prima della capacità di intendere (e di volere) del periziato, ovviamente.