La pulsione di morte in Lacan – Das Ding

Quando il concetto di pulsione di morte viene articolato all’interno dell’ordine di idee posto da Lacan, trova il proprio rapporto con le questioni che derivano dall’azione del significante. È principalmente nel Seminario – Libro VII – L’etica della psicoanalisi [1], che Lacan tratta della pulsione di morte. Non deve meravigliare che sia qui che si affaccia la questione, perché il discorso sull’etica della psicoanalisi è il discorso sui fini, sulle direzioni della psicoanalisi, discorso che non può essere scisso da quello sui fini e sulle direzioni dell’uomo in senso generale. Pertanto, è qui che si ha da considerare il problema della pulsione di morte, perché il fatto che essa “esista” o “non esista” e il senso che dobbiamo eventualmente attribuirle sono questioni che, una volta poste – e Freud le ha poste – non possono più essere evitate quando si affrontino interrogativi concernenti appunto i fini, le direzioni o, se vogliamo, le tendenze (l’etica) dell’uomo.

Quello che Lacan dice sull’etica e sulla pulsione di morte si impernia, come dicevo, sulla questione fondamentale del taglio del significante, delle radicali implicazioni che l’impatto del significante determina sull’organizzazione psichica. Il simbolo si manifesta in primo luogo come uccisione della cosa[2], egli dice.

Perché? Perché in questo modo viene resa quella che è la fondamentale trasmutazione che il significante impone all’esperienza umana in quanto tale, cioè in quanto sottratta al funzionamento animale, alla natura. Il fatto che in questa esperienza si inserisca un sistema di significanti apporta questo di nuovo: che interviene una universalizzazione; ogni rapporto umano non potrà più prescindere da qualcosa che è dell’ordine dell’universale.

Che l’esperienza umana sia immersa nell’universo del simbolico ha quindi per Lacan effetti per nulla contingenti, collaterali; cioè la psicologia umana non è qualcosa di sostanzialmente assimilabile a quella animale con, in più, la faccenda del linguaggio; quest’ultimo, al contrario, introduce una rivoluzione, uno stacco, che imprime una svolta radicale, tale da interporre un abisso fra il modo di funzionare dell’uomo e quello degli animali. Il significante non è visto come uno strumento che interviene in un commercio con l’altro e con il mondo che resta sostanzialmente invariato dal suo arrivo; invece, l’apparizione del significante apporta una frattura irreversibile che ristruttura dalle fondamenta l’esperienza vitale umana. L’universo del simbolico s’imporrà, d’ora in poi, come un elemento determinante dell’esperienza, agente in modo autonomo e incisivo con le proprie leggi sull’organizzazione psichica. Non si tratta quindi di uno strumento, perché questo termine evoca una certa qual padronanza: un soggetto usa la parola come un mezzo per i propri fini; per Lacan, abbiamo a che fare con ben altro: con il fatto che il significante, con le sue proprie leggi e la sua autonomia, ci fa suoi.

In che modo? Sostanzialmente agendo come un filtro, o meglio come una filiera: il reale, il magma dell’esperienza, viene ridotto in fili, fili che si intrecciano e formano una trama, un tessuto; fili fatti di significante, cioè di un niente di particolare, di non-cosa. È l’oggetto che con ciò viene perduto, l’oggetto in quanto tale; è, per fare un esempio, ciò che accade con le matematiche, dove si può costruire una scienza, si possono fare delle scoperte ed enunciare teoremi, senza che ciò riguardi nulla in particolare. L’oggetto del significante è il vuoto; è del vuoto che il significante parla.

Un significante trae il proprio status non dall’associazione con l’oggetto che designa, ma dal suo rapporto con il resto della trama dei significanti:

“Oggi tutti ammettono che l’ape, tornata dalla sua raccolta di nettare all’alveare, trasmette alle sue compagne, mediante due tipi di danza, l’indicazione dell’esistenza di un bottino vicino o molto lontano. (…) E le altre api rispondono a questo messaggio dirigendosi immediatamente verso il luogo così designato. (…)

Con ciò, si tratta di un linguaggio? Possiamo dire che se ne distingue precisamente per la correlazione fissa dei suoi segni con la realtà che significano. In un linguaggio infatti i segni traggono il loro valore dal rapporto degli uni con gli altri, nella ripartizione lessicale dei semantemi così come nell’uso posizionale, o flessionale, dei morfemi, che contrasta con la fissità della codificazione messa in giuoco nel nostro caso.”[3]

Il linguaggio gira su se stesso: un significante si riferisce sempre a qualcosa, che però è sempre dell’ordine del significante e non degli oggetti; per questo parla sempre del vuoto.

Vediamo così delinearsi un movimento fondamentale dello psichismo umano: il continuo investimento del reale a opera del simbolico, l’anelito a cogliere il reale attraverso la produzione inarrestabile di forme, di categorie, che lo contengano, attraverso, cioè, la sua simbolizzazione, la sua universalizzazione. Si pensi al movimento delle Scienze della Natura, al loro ideale di un progresso infinito che vada progressivamente a ridurre a zero la distanza fra il reale e l’universale che la scienza ne fa; si comprenderà così il fondamento libidico della scienza.

La questione è che il reale non può essere ripreso in toto dal simbolico, non può esserlo in ciò che è assolutamente unico e irripetibile. Qualcosa del reale è destinato a restare irrimediabilmente fuori, fuori-discorso, fuori-senso. Fuori dal simbolico. C’è un resto; di questo resto non si può dire assolutamente nulla perché, per farlo, dovrebbe poter essere, appunto, detto, cioè simbolizzato, che è proprio ciò che non è possibile. Esso rimane pertanto fuori dall’essere, in quanto l’essere appartiene all’universo, all’universo di tutto ciò che il pensiero può pensare, all’universo del simbolico. Questo, che è un resto, è dunque reale ed è vuoto. È il segno del limite della parola, del simbolico. È il segno della doppia radice dell’umano, della radicale scissione dell’uomo fra materia e parola, e della radicale insanabilità di questa scissione.

Volgiamoci un attimo a Freud, in particolare al Progetto di una psicologia[4]: egli dice che nell’esperienza infantile della realtà, questa viene divisa in due parti; tutto ciò che è qualità e come tale è simbolizzabile, passa nel sistema delle Vorstellungen(rappresentazioni) primitive e andrà a costituire la struttura dell’inconscio soggetta all’investimento del principio di piacere; tutto ciò che non può essere riassorbito nel significante si imporrà per il suo apparato costante, che resta insieme come cosa[5], als Ding[6]. Questa parte della realtà è tutto ciò che non può essere formulato come attributo, è il fuori-senso, il non-simbolizzabile, e come tale andrà a collocarsi al cuore della struttura inconscia come l’estraneità assoluta, il Fremde[7] (reso dalla traduzione italiana con “parti disparate della percezione”[8] e con “non assimilabile”[9]).

È ciò che sopra ho richiamato e che Lacan esprime dicendo che il nome uccide la cosa. L’azione del significante introduce un buco nel reale proprio per questo motivo: che il reale non è totalmente riassumibile nel significante; c’è un resto che non si lascia simbolizzare, che rimane come il non-senso, il niente-significato; l’organizzazione del significante nell’inconscio sarà dunque costituita da una trama, una rete di collegamenti di significante in significante strutturata attorno a un buco centrale che non può essere ripreso nella trama stessa; questo buco è das Ding:

“…questa Cosa è quel che del reale – intendete qui un reale tale che non abbiamo ancora da limitarlo, il reale nella sua totalità, tanto il reale che è del soggetto che il reale con cui egli ha a che fare come esterno a sé – è quel che, del reale primordiale, diciamo, patisce del significante.”[10]

Ora, e questo secondo me è un punto fondamentale dell’Etica della psicoanalisi, questo vuoto è per il soggetto l’incontrovertibilità della mancanza; il reale è collocato al di là delle colonne d’Ercole e quindi il mondo al di qua non può essere colto come integro, completo. Il soggetto non può riconoscersi come intero, qualcosa manca all’appello della Totalità, e quindi della Felicità. Qualcosa è stato tagliato via; c’è una ferita, una parte mancante. In questo modo si comprende perché c’è qui un’Etica, cioè un discorso sull'”ideale”, sulla mira del soggetto: questa mira è il vuoto centrale, è das Ding, perché essa è il segno di ciò che manca. Tutto il movimento dell’investimento libidico che scorre sulle catene significanti dell’inconscio mira al vuoto centrale come depositario di quello che si cerca perché manca, e che però si pone al di fuori della raggiungibilità, di ogni coglibilità, non esiste per esso alcuna rappresentazione e pertanto, se c’è e gioca questo ruolo, è per la sua irrimediabile assenza.

È proprio qui, pertanto, che individuiamo ciò che propriamente contraddistingue il funzionamento dell’inconscio in quanto determinato dalle implicazioni del significante: l’anelito al recupero della totalità come Utopia della non-mancanza, al fare Uno, alla ricucitura del taglio, al ritorno all’Origine, a “quando nei fiumi scorreva il latte”:

“…la legge fondamentale, la legge primordiale, quella in cui incomincia la cultura in quanto si contrappone alla natura – … – è la legge dell’interdizione dell’incesto.

… Voglio dire che tutto ciò che si sviluppa a livello dell’interpsicologia madre bambino, e che mal si esprime nelle cosiddette categorie della frustrazione, della gratificazione e della dipendenza, non è altro che un immenso sviluppo del carattere essenziale della cosa materna, della madre, in quanto occupa il posto di questa cosa, di das Ding.”[11]

C’è una mira, che è quella della Felicità “perduta”; ma l’illuminazione più importante è quella che pone in evidenza quale sia lo status dell’oggetto in psicoanalisi: la Madre è già perduta fin dall’inizio, è da sempre perduta, è strutturalmente perduta, perché è proprio lasciandola fuori da sé che lo psichismo, in quanto universo simbolico, si costituisce. L’oggetto cui il soggetto inconscio rivolge il suo anelito non è pertanto mai stato presente; è precisamente ciò che sopra abbiamo chiamato un vuoto, il cui posto è occupato dagli oggetti della realtà solo in quanto “facenti funzioni”, surroganti, ciò che non può essere surrogato. L’Origine è quindi sì perduta, ma perduta in senso logico e non cronologico. L’oggetto della realtà non è mai ciò cui l’inconscio mira, se non come sostituto di un altro, che a sua volta sostituisce il precedente, in una catena che, alla sua radice, non ha l’Oggetto, ma un reale vuoto. La madre della realtà, in quanto colta, simbolizzata, nelle sue parti “assimilabili” è già un sostituto totalmente, radicalmente e strutturalmente “inadeguato”, rispetto a ciò che manca.


[1] J. Lacan, Il Seminario – Libro VII, Op. cit.

[2] J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti – Vol. I, Einaudi (1974), pag. 313.

[3] J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, Op. cit., pagg. 290-291.

[4] S. Freud, Progetto di una psicologia (1895), in Opere – vol. 2, Bollati Boringhieri, (1989), pag. 203.

[5] Questa distinzione è ripresa più volte da Freud nel Progetto; vedere ad es.: ibidem, pag. 232, pag. 235, pag. 264.

[6] J. Lacan, Il seminario – Libro VII, Op.cit., pag. 63.

[7] J. Lacan, Il seminario – Libro VII, Op.cit., pag. 64.

[8] S. Freud, Progetto di una psicologia, Op. cit., pag. 236.

[9] ibidem, pag. 274.

[10] J. Lacan, Il seminario, – Libro VII, Op.cit., pagg. 150-151.

[11] ibidem, pag. 83.